Franco Zeffirelli compie 95 anni, il suo primo allestimento di Aida per il Teatro alla Scala di Milano ne compie 55. Quella che ha fatto decidere ad Alexander Pereira, sovrintendente del teatro, di festeggiare il primo compleanno col secondo non è una numerologia semplicemente affettiva, ma anche storiografia (nel senso della storia della messinscena teatrale) ed estetica tout court: sì perché l’allestimento del 1963, a differenza di altri di Zeffirelli ormai non più proponibili, ha attraversato il suo mezzo secolo di vita con una freschezza stupefacente ed è arrivato a noi con una capacità di «rappresentare» l’essenza del teatro verdiano ancora intatta. Certo non bisogna aspettarsi una regia nel senso contemporaneo di veridizione del testo attraverso il corpo scenico (quello degli attori e quello dei decori), di verifica e resa conseguente del rapporto tra spazio tempo e azione, di scavo psicologico dei personaggi.

Piuttosto aspettiamoci una regia che, recuperando le convenzioni in uso ai tempi di Verdi, concepisce il gesto come sottolineatura enfatica dell’emozione e il movimento in funzione del canto, e proprio per questo appare perfettamente in linea con un allestimento, dice lo stesso Zeffirelli, che vuole essere un «atto d’amore per un’idea tradizionale della messinscena operistica», risuscitando «un mondo in una visione poetica, struggente […] per le prospettive architettoniche dei fondali dipinti che rievocavano in un’onirica visione i templi nilotici», coniugando filologia e creatività: lo sfavillio serico dei fondali colpiti dalla luce e l’effetto fané che allontana la storia in una dimensione fantastica restano ancora oggi un miracolo di immaginazione spaziale. Daniel Oren dirige con ritmo e senso dell’azione, mantenendo nel bene e nel male il volume sempre alto, consentendosi e consentendoci di gustare avidamente le prelibatezze armoniche di questa partitura con un effetto di costante zoom acustico. Poco gli importa che le voci vengano travolte dal suono dell’orchestra, se le voci non sono memorabili. Il Radames di Fabio Sartori ci regala acuti brillanti e un timbro non così lontano da quello bronzeo richiesto da Verdi, ma ci priva di qualsiasi sfumatura interpretativa al di fuori di un generico eroismo.

L’Amneris del fu soprano Violeta Urmana ci assorda con acuti striduli e passaggi al registro di petto sforzati e privi di qualsiasi avvenenza, oscurando il lato seducente e velenoso del personaggio. L’Amonasro di George Gagnidze è vocalmente squillante quanto metallico e generico nella caratterizzazione. Sbiadite le voci che Carlo Colombara e Vitalij Kowaljow danno rispettivamente al Re e al Gran Sacerdote. L’Aida di Krassimira Stoyanova fa sfoggio di una voce lirica non sufficientemente spinta, dagli acuti a tratti esili nel volume e dai gravi spinti e sgraziati, pur dispensando talora pianissimi ammalianti. Per tutti il corpo è non è altro che un imbarazzo da superare. Repliche fino al 3 giugno.