È stato il suono versatile del Krar – la lira etiope – con la sua griglia timbrica che può diventare ora melliflua, ora acidula, a caratterizzare la due giorni del Selam Festival ad Addis Abeba. Il festival è giunto alla quinta edizione, ha uno strano organigramma organizzativo piazzato per metà in Etiopia e per metà in Svezia e si celebra nei giardini di uno degli Hotel più accoglienti del centro di Addis Abeba, tra i quartieri di Gola Sefer e Kazanchis, nei pressi di Menelik Street. L’hotel ha un suo pedigree anche musicale, dal momento che accoglie nei suoi spazi al chiuso anche l’African Jazz Village, un club dove passano spesso i gruppi più caldi di Addis Abeba e dove è di casa anche Mulatu Astatké con il suo vibrafono riverberato, padre putativo dell’ethio-jazz.
E del resto quella degli show negli hotel e del loro ruolo di fucina delle scene musicali africane è una costante antica, basti pensare a quel che avveniva in Algeria prima dell’Indipendenza, alla fertile scena dei ritrovi di Bamako e Dakar negli anni sessanta e settanta, a quel che capita anche oggi a Kinshasa e Brazzaville…

Il Selam festival ha scelto una delle più popolari parole amariche – Selam appunto, che sta per «Pace» e per «Salve», una delle poche che anche gli stranieri assimilano in fretta -, per promuovere una rassegna che presenta annualmente una folta rappresentanza della scena musicale etiope, qualche altra proposta dal resto dell’Africa, oltre a pochi, pochissimi progetti che arrivano invece dagli altri continenti. In realtà è proprio la perlustrazione piuttosto puntuale della scena locale che fa di questo evento un appuntamento interessante: ensemble più tradizionali e gruppi hip hop, neomelodici etiopi e gruppi reggae, esperimenti appena nati e band storiche, combo elettrificati e gruppi acustici…

Va detto che la due giorni è stata funestata quest’anno da una specie di monsone imbizzarrito (in Etiopia saremmo nella stagione secca) che ha fatto capolino nella prima giornata ed ha letteralmente interrotto e chiuso la seconda con un nubifragio molto violento fatto anche di folate di vento e grandine. Gli ultimi tre gruppi in scaletta non si sono dunque potuti esibire e la seconda notte del festival si è chiusa un po’ mestamente con un djset all’African Jazz Village, dove a un certo punto ha fatto capolino anche il «padrone di casa» Mulatu. Il programma del festival era stato comunque piuttosto serrato con concerti che iniziavano a partire dalle due del pomeriggio e alla fine il panorama di proposte si è rivelato comunque frastagliato nonostante l’interruzione temporalesca.

Si diceva del Krar, che nella due giorni abbiamo visto imbracciare da moltissimi musicisti e che ha di volta in volta preso la sfumatura di uno strumento armonico in grado di arricchire il corredo timbrico delle band, quella di uno strumento solista che si inacidisce al punto da evocare una chitarra elettrica e quella di un basso che può miscelare grooves.
L’origine del krar è molto probabilmente mesopotamica. I primi esemplari conosciuti sono datati 2800 A.C. Oggi, il krar è suonato ancora sulle rive del golfo persico, così come in Sudan, ma è in Etiopia (nelle cui zone meridionali la casta dei conciatori deteneva l’esclusività della sua fabbricazione e veniva messo in campo in occasione di feste familiari, di matrimoni e battesimi), che ha trovato la propria identità espressiva, spesso affiancato al Masenko, il violino a una sola corda (fatta di criniera di cavallo). Dal punto di vista della valorizzazione dello strumento il gruppo forse più noto anche alle platee occidentali è proprio il Krar Collective, un trio (krar, voce e percussioni) composto da musicisti che vivono da tempo a Londra e sono stati soprannominati «i White Stripes dell’Etiopia» per le loro sonorità da rock minimale e furioso. Il leader della band, Temesgen Zeleke, è uno straordinario suonatore di krar che ha reinventato in modo innovativo l’approccio alla tradizione etiope a cui rimangono comunque fortemente legati.

Il loro set è stata una specie di onda montante con le ossessioni ipnotiche dello strumento che si scaraventavano sugli astanti. Un bel plotoncino di Krar caratterizzava anche il sound del gruppo che accompagnava l’esibizione del Circus Debereberhan con fenomenali giocolieri, clown, acrobati, danzatori che si muovevano al ritmo della musica tradizionale, mentre due krar, uno con le funzioni di basso, avrebbero dovuto arricchire il sound di un progetto nuovissimo capitanato dal dj e producer Endeguena Mulu.
Il gruppo si chiama The Azmaris Synthesis e si è rivelato un flop assoluto con i sei elementi spaesati sul palco, spesso intenti a chiacchierare per capire quale direzione prendere, totalmente dipendenti dalle basi manovrate da Endeguena e capaci solo di coniare, ma il termine è fin troppo elogiativo, una sorta di chill-out etnica sbrindellata e claudicante.

A risollevare le sorti musicali della seconda giornata ci hanno pensato il suonatore di kora elettrificata ugandese Joel Sebunjo e l’abilissimo manovratore di balafon maliano Aly Keita. Il loro incontro, supportato da una band un po’ fracassona ma molto abile tecnicamente, ha dato vita ad una sorta di etno-fusion che ha evitato quasi tutti i clichè del genere e che si è pure fregiata dei sontuosi interventi vocali di Sebunjo, titolare di una grana timbrica che passa senza patemi dall’acutissimo al basso profondo. Nella giornata d’apertura va invece segnalato il passaggio trionfale di un grande della musica etiope come Mahmoud Ahmed, uno dei protagonisti delle riedizioni della serie «Ethiopiques» di Francis Falceto, vocalist e caporchestra, perno di una genia di musicisti che comprende anche Mulatu Astatké, Gétachew Mèkurya, Alèmayèhu Eshèté.

Piena di significati e di fragranze infine l’esibizione di Sydney Solomon & The Imperial Majestic Band, in primis perché il gruppo arriva da Shashamane, l’enclave rastafari etiopica, una città che si trova nella zona centrale a circa 250 km a sud da Addis Abeba e la cui storia fino agli anni sessanta del secolo scorso era quasi esclusivamente legata alla coltivazione ed al commercio e rappresenta ancora oggi un luogo di passaggio per le rotte commerciali.

Nel 1963, però, l’Imperatore d’Etiopia Haile Selassie I decise di destinare parte di questa terra al rimpatrio di tutti i cosiddetti Figli della Diaspora Africana, donando 500 acri alla Comunità, internazionale ma con base caraibica, dei Rastafariani che da allora hanno progressivamente popolato Shashamane. Anche Sydney Salmon & The Imperial Majestic Band fanno tutt’oggi la spola tra Shashamane, la capitale e molti altri spazi reggae in giro per il mondo e portano così il verbo della «terra promessa» riconquistata grazie al lasciapassare di un culto che dalla Giamaica ha seguito il battito implacabile del «dio del levare». Poche altre storie in musica hanno avuto una fine così lieta, confortante e simbolica.