Con le firme di tutti i 52 senatori che compongono il gruppo parlamentare, il Pd proverà oggi la strada della Corte costituzionale contro la legge di bilancio. Il tentativo è quello di far dichiarare ammissibile dalla Consulta un conflitto di attribuzione tra i poteri dello stato sollevato dal gruppo dem contro la presidenza del senato della Repubblica per il modo in cui il 22 dicembre scorso è stata approvata la manovra. Il testo della legge più importante dell’anno è arrivato in un maxiemendamento di 19 articoli e oltre 1.150 commi, non è passato dalla commissione bilancio ed è stato approvato in poche ore con la fiducia. Secondo il Pd – che ovviamente ha il governo, più che la presidenza del senato, nel mirino – è stato così violato l’articolo 72 della Costituzione, secondo il quale «La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della camera è sempre adottata» per alcuni disegni di legge in particolare, tra i quali l’approvazione del bilancio.

È lo stesso ricorso che è stato tentato due volte (dall’avvocato Besostri) contro il Pd di Renzi e l’approvazione con la fiducia delle leggi elettorali conosciute come Italicum (nel 2015) e Rosatellum (nel 2017). Le leggi elettorali sono in cima all’elenco dell’articolo 72, accanto alle leggi costituzionali. La Corte però giudicò inammissibili quei ricorsi, perché non riconobbe ai singoli elettori prima, e ai singoli parlamentari poi, la legittimazione attiva, cioè che potessero essere considerati come un potere dello stato all’interno di un giudizio sul procedimento di approvazione della legge. Ma nell’ordinanza del dicembre scorso (280/2017) i giudici hanno lasciato uno spiraglio, perché hanno dichiarato inammissibile il ricorso del capogruppo dei senatori e del vice capogruppo dei deputati del Movimento 5 Stelle (anche per loro la storia si ribalta) in quanto la richiesta non era «supportata dalla necessaria indicazione delle modalità con le quali il gruppo parlamentare avrebbe deliberato di proporre conflitto davanti alla Corte costituzionale». Il capogruppo non può parlare a nome di tutto il gruppo, sembra aver detto la Consulta, e così il Pd questa volta ha raccolto le firme di tutti i senatori davanti a un notaio.

«Secondo il nostro giudizio, il governo Conte ha palesemente violato la Costituzione con le modalità usate per approvare la legge di bilancio. Modalità che peraltro si stanno ripetendo anche alla camera», ha detto il capogruppo dei senatori dem Marcucci. Oggi il gruppo presenterà il testo del ricorso messo a punto da un gruppo di costituzionalisti, i professori Caravita, de Vergottini, Falcon, Onida, Randazzo, Lucarelli e Cecchetti. «Il punto chiave è proprio l’ammissibilità del ricorso», spiega uno dei docenti che sta lavorando al ricorso, anche perché «non riconoscere alla minoranza parlamentare il potere di sollevare il conflitto di attribuzione significherebbe nella sostanza sterilizzare questo istituto all’interno della vita parlamentare, perché non sarà certo la maggioranza e quindi l’insieme dell’aula a sollevare questo genere di conflitto verso il governo».

Secondo il deputato e costituzionalista Pd Ceccanti «in linea di principio, al di là dei singoli esiti concreti in senso negativo, la Corte non ha mai escluso che nemmeno il singolo parlamentare possa essere equiparato a potere dello stato per la difesa di sue specifiche prerogative, ad esempio per il parlamentare che sulla base dell’articolo 68 avesse espresso opinioni nell’esercizio delle proprie funzioni, al quale la propria camera negasse l’immunità. Se questo è ammesso per i singoli, non si vede perché debba essere negato per i gruppi di opposizione». Tra i precedenti della Corte sulla possibilità di un singolo parlamentare di sollevare un conflitto di attribuzione c’è quello famoso di Cesare Previti al quale fu data ragione contro il Tribunale di Milano in una sentenza del 2001 scritta proprio dall’ex giudice costituzionale Onida. L’avvocato Besostri ricorda invece come nessuno dei costituzionalisti che ora sostengono il ricorso del Pd contro il governo gialloverde si sia espresso in favore dei suoi ricorsi contro le fiducie di Renzi sulle leggi elettorali. Sostennero al contrario che non erano ammissibili e la Corte diede loro ragione.