Con il nuovo lungometraggio americano in uscita e l’ottimo reboot giapponese diretto da Hideaki Anno un paio di anni fa, la saga di Godzilla sembra godere di ottima salute ed aver ritrovato nuova linfa. Lo scorso anno era uscito nelle sale giapponesi prima, ed in tutto il mondo su Netflix in un secondo momento, Godzilla: Il Pianeta dei Mostri, il primo capitolo di una trilogia animata realizzata dalla Polygon Pictures in tecnica mista CGI e cel-shading e diretta da Kobun Shizuno e Hiroyuki Seshita. Il secondo lungometraggio, Godzilla: Minaccia sulla Città, è stato distribuito in alcune sale dell’arcipelago qualche mese addietro ed è da pochi giorni disponibile sul servizio streaming americano anche in Italia.

Nel nuovo film l’apparizione di Godzilla sul pianeta terra ha di fatto distrutto la civiltà e causato la fuga della razza umana nello spazio, dopo 20 mila anni i discendenti di quei sopravvissuti decidono di ritornare sulla terra e di combattere Godzilla, ora alto 300 metri ed unico padrone del pianeta. A guidare le truppe composte da umani, ma anche da due razze aliene, gli Exif e i Bilusaludo, c’è Haruo, un giovane che vuole a tutti costi uccidere il kaiju e che fa di questo odio il suo unico motivo di vita.

Godzilla: Minaccia sulla Città è meno un film su Godzilla come siamo stati abituati a vederne, né un’opera che usa l’immaginario ed i kaiju creati nel corso dei più dei sessant’anni da cui il lucertolone debuttò sul grande schermo, per affrontare invece temi cari alla space opera classica ibridati a problematiche e tematiche contemporanee. Il lungometraggio infatti imbastisce un discorso molto interessante, la realizzazione non è sempre all’altezza, sul destino del genere umano quando rapportato ad ere millenarie.

La possibile fine dell’umanità, la sua mutazione e la capacità del resto del creato di evolversi si intrecciano ad un altro tema molto caro all’immaginario fantascientifico giapponese, quello dell’abbattimento, o almeno della sospensione, del confine fra naturale ed artificiale. Ecco allora il nanometallo senziente di cui si compone la città-Mechagodzilla, luogo dove il gruppo trova riparo e con cui cercherà di sconfiggere Godzilla, ma anche l’evoluzione che il genere umano e quello animale hanno intrapreso nei 20 mila anni trascorsi dall’avvento di Godzilla. L’ibridazione umano-regno degli insetti da cui sembra essere derivata la tribù dei Houtua, gruppo che venera un enorme uovo divino, è in questo senso uno spunto molto importante che verrà sviluppato a pieno solo nel prossimo e ultimo capitolo della trilogia, così come molte altre piste narrative che qui sono solo accennate e che introdurranno altri kaiju noti al franchise. Il conflitto che si sviluppa e domina gran parte del film è quello fra le diverse razze che assieme a quella umana cercano di riprendersi la terra da Godzilla, da una parte gli Exif, setta spirituale, dall’altra i Bilusaludo, militaristici e pragmatici che «credono» nella tecnologia e nel progresso da essa portata.

Specialmente in questo secondo capitolo dove Godzilla rimane quasi sempre in secondo piano e rappresenta più il mondo e l’ambiente dove tutte le vicende si svolgono che una creatura singola, il conflitto non è tanto quello con il lucertolone, ma piuttosto quello fra le varie razze ed i loro vari modi di intendere e rapportarsi al reale e alla natura. Certo tutto queste idee non sono sempre portate sullo schermo con la giusta misura, l’estetica creata dalla Polygon Pictures lascia spesso a desiderare, soprattutto per quel che riguarda i personaggi, e l’animazione non è sempre all’altezza dei concetti che vuole trasmettere. Inoltre il tutto è spesso fin troppo grossolano e semplificato, alcune scene mielose potevano benissimo essere tagliate, ma non si può negare come il mondo di questa trilogia animata su Godzilla, scritta dal geniale Gen Urobuchi, sia davvero ricco di potenziale narrativo e pregno di riferimenti filosofici che fanno ben sperare per la conclusione dell’ultimo capitolo, Gojira: hoshi wo ku mono, che uscirà questo autunno.