Bisogna «tenersi il vento alle spalle» come scriveva J. Conrad, in questa giornata romana di vento e luce che a tratti pugnala. Vinicio Capossela torna da un mini tour in America e il fuso orario necessita a breve di una corposa tazza di caffè . L’occasione dell’incontro è Ballate per uomini e bestie, il nuovo album in uscita oggi per i tipi della Warner. Tra le mani Vinicio tiene il disco descrivendo minuziosamente la copertina e la custodia: «E’ molto importante l’habitat che si dà alla musica. Questa è una struttura come i pacchetti di sigarette greche delle Karelia, non è neanche un cofanetto, anzi sembra una scatola di cioccolatini. Nella foto sembrano anime del purgatorio e invece sono creature, è una foto scattata nel 2015, possono sembrare figure rupestri. Lo scatto è di un artista polacco che è andato a fotografare i pinguini giù nell’Antartide. Creature strane, pensa a come portano avanti la vita nelle condizioni più ostili. Mi piaceva questo ritaglio di foto perché non si capisce se sono uomini o bestie o medici della peste. E poi aprendo la scatola è come se fosse un codice medioevale».

Quindi l’immagine che viene in mente guardando la copertina è una sorta di discesa all’inferno o nel purgatorio?

E’ una specie di purgatorio perché credo siamo veramente in una fase dove è come se fossimo stati contagiati dalla peste e costretti a sviluppare gli anticorpi. Quindi per fortificarli bisogna per prima cosa riconoscere la malattia, perché come diceva Manzoni: ‘i medici opposti alla opinione del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto’.  Poi man mano si inizia a riconoscerla e si producono anticorpi e in questo caso il cantare fortifica, ci fa sentire meno soli.

Un titolo curioso: perché le ballate e non le canzoni?

La ballata è diversa dalla canzone. Nel medioevo – quando è nata – i trovatori non si ponevano problemi di lunghezza, raccontavano storie. In questo album si tratta di ballate di ampia misura per uomini e bestie, bestie nel senso sia dalla parte degenere dell’uomo sia dalla parte del bestiario “ .

E questa differenza fra uomini e bestie?

Beh il Ministro dell’Interno ha chiamato bestia la sua macchina del consenso in rete… le bestie nel senso di animali hanno subito sempre da parte dell’uomo un antropizzazione, il porco non è più il maiale però è diventato un aggettivo per definire un uomo, non pensando all’animale in sé ma per aggettivare un comportamento. Io come tutti mi occupo di animali antropizzati nell’immaginario dell’antropocene. I geologi hanno nominato l’ultima fase della storia, quella in corso antropocene, dove l’influenza dell’uomo sulla terra è così forte che non si può più parlare della terra senza la presenza dell’uomo in maniera invasiva, una presenza ingombrante.

C’è una sorta di inquietudine nella parte musicale delle composizioni: un paio – Uro e Danza macabra – ricordano gli scenari dei film di Tim Burton

Queste canzoni in realtà sono un po’ fuori dal tempo per i soggetti che si usano, anche musicalmente stanno in una loro dimensione, perfettamente inserita nel mondo di oggi. Uro è un animale scomparso, l’antenato del toro che si vede nei dipinti rupestri, questa cosa così primordiale che vuole esprimere l’alba dell’uomo, la prima luce aurorale. La musica in gran parte l’ha composta Teho Teardo, che lavora spesso per immagini però è assolutamente contemporaneo. Tim Burton è contemporaneo, anche se sono autori che la contemporaneità la rapportano a un patrimonio antecedente.

Dall’inquietudine primordiale di Uro passiamo a La lumaca, ovvero rallentare il tempo e godersi la scia…

Rallentare il tempo è un po’ complicato, sarebbe un ammutinamento al tempo dell’utile e al tempo del lavoro. Credo che avesse ragione Henry Miller a scrivere che vedendo gli uomini dall’alto ‘ci si rende conto che hanno bisogno di spazio più che di tempo’. In realtà penso che ora come ora ci sia bisogno di tempo più che di spazio. Il tempo ha subito una completa desacralizzazione, non c’è niente che segua un corso, una ritualità, una ricorrenza, una circolarità, è un tempo frammentato che muore a ogni istante. Però l’uomo ha sempre cercato un accesso al tempo verticale, come lo chiamano gli antropologi, in un certo senso la cultura contadina aveva la circolarità delle cose che tornano, che ricominciano . Per me il calendario offre sempre dei buchi di accesso a questo tempo circolare che è definito dalle stagioni, perché fa parte di noi, questo istinto innato di mettere le cose in una dimensione temporale che non viene corrosa, e questo accesso al tempo rallentato secondo me è nel mondo della poesia, della musica, dell’arte. Tutto quello che in un certo senso ha la capacità di astrarsi dal continuo spegnersi degli istanti.

 La scelta del singolo è caduta su Il povero Cristo

Non sono credente, però trovo che la figura del Cristo e tutta la letteratura che gira intorno a partire dai Vangeli sia una delle storie più sublimi mai raccontate.

In La peste irrompe la contemporaneità, con il racconto del mondo ai tempi del web

Non odio affatto il mondo della rete, mi affascina tantissimo e non lo vedo come la peste. Penso piuttosto sia uno straordinario veicolo di trasmissione di qualsiasi genere di contenuto, veicolo di trasmissione inedito, in una fase ancora però molto sperimentale. Ancora non si è codificato un codice etico, una normativa, internet può veicolare di tutto. Sarebbe come accusare l’aria di essere la peste. L’aria è il mezzo di trasmissione di un virus che si propaga, ora la rete offre un tipo di interconnessione, di contagio, delle false notizie, false credenze, che mi riporta a alcune modalità della peste medioevale. Anche nella terminologia stessa della rete c’è una parte epidemiologica, e la pestilenza di cui parlo è una pestilenza di corruzione morale. Le cose basse viaggiano più in fretta, sono più semplici da veicolare. Quello che è paradossale della rete è che in un momento come questo offre la più straordinaria possibilità di conoscenza e allo stesso tempo offre la più grande colossale possibilità di disinformazione.