Ecco che l’anno nuovo comincia e dalla litania di stragi sembra purtroppo fotocopia di quello appena passato. Non è così però. L’attentato di Istanbul è stato troppo paragonato ad altri efferati e siccome ha avuto di mira la discoteca lussuosa Reina ha indubbiamente ricordato il Bataclan di Parigi, per modalità e natura del bersaglio colpito.

Ma quella strage e le altre di quel periodo rappresentavano ancora la fase predicatoria-criminale dello Stato islamico, una sorta di offensiva nei luoghi dell’Occidente, subito in Europa. Simbolo del male assoluto per la loro presunta dissolutezza.

Ma erano e sono gli stessi Paesi che avevano attivato in Siria la guerra per procura insieme alle petromonarchie del Golfo; e che avevano visto partire, senza commento, migliaia di foreign fighters. Una scia di sangue di rientro in casa.

Stavolta c’è una novità. L’attentato avviene a poche ore dal voto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite che ha approvato all’unanimità con il voto positivo degli Stati uniti ancora a presidenza Obama le condizioni della tregua trattate da una parte da Russia, Turchia e Iran e dall’altra dal fronte dell’opposizione siriana, non solo quella moderata ma anche dei salafiti, escludendo naturalmente Isis e qaedisti.

Dovrà avere verifiche ulteriori prossimamente ad Astana, è nel solco del vertice di Ginevra. Ma, anche con il suo più grave punto debole – fuori, per ora, sembrano stati lasciati i kurdi siriani dell’Ypg che hanno combattuto l’Isis e hanno costruito una alternativa politica nel Rojava -, è finora la soluzione più avanzata e più credibile. «L’unica che può tenere», sostiene l’inviato dell’Onu per la Siria Staffan de Mistura.
Le condizioni della tenuta della tregua votata all’Onu sono due però e rappresentano un vortice di contraddizioni.

La prima è che tenga il fronte unitario che combatte lo Stato islamico e i gruppi che a vario nome e titolo si richiamano ad Al Qaeda: da questo punto di vista è fragile e negativa l’esclusione dei kurdi, abbandonati alla mercé delle truppe turche che proprio il loro rafforzamento vogliono impedire.

La seconda condizione è che tenga la Turchia, la sua compagine politica e sociale alle prese anche con milioni di profughi in fuga dalla guerra siriana.

Proprio quando Ankara sembra volgere lo sguardo dalla Nato, l’alleanza militare di storica appartenenza, che è stata «a guardare» il golpe tentato da un terzo dell’esercito turco contro Erogan, per rivolgere invece attenzione all’iniziativa della Russia. Con la quale, abbandonando per ora la visione egemonica ottomana, ha fatto un voltafaccia di 360 gradi, tagliando con le milizie dell’Isis che fino all’ultimo ha protetto in traffici di armi, petrolio, finanziamento e addestramento.

Il fianco debole della tregua di pace votata all’Onu è proprio la Turchia. Che è in guerra con una parte del suo popolo nel Kurdistan interno; e che finora è stata il santuario del fronte.

Questo è il fianco debole e sposto alla vendetta, che lo Stato islamico in ritirata vuole e, vista la recente connivenza, può colpire.

L’Europa si augura dunque che la Turchia resista. Dobbiamo sapere che questo accadrà nella ferocia della cancellazione ulteriore di diritti, libertà e democrazia. Con tanti, troppi silenzi che copriranno, insieme alla difesa e salvaguardia contro l’Isis, la repressione di tante, troppe libertà per le quali le capitali occidentali sono state taciturne e complici.

La guerra, in Siria e prima in Libia e Iraq, è stata solo seminagione d’odio. La scia nefasta che «ci torna a casa» non è solo quella degli attentati sanguinosi.

Diventa normalità essere costretti ad una democrazia blindata, sul chi vive, fittizia, affidata a protezioni eccezionali, magari militari.

Fino a quando la spirale guerra-terrorismo?