«Non sono mica Dick Cheney!». Così, secondo POLITICO.com, si sarebbe difeso Barack Obama in un recente incontro a porte chiuse con la conferenza democratica al Senato che gli sta dando filo da torcere sulla questione dei droni. In occasione del decimo anniversario dell’invasione in Iraq (16 marzo 2003), per chi avesse avuto nostalgia del «vicepresidente più potente della storia Usa», occasionalmente ribattezzato con i nomi dei tre cattivissimi di Star Wars -Darth Vader, Darth Sidious e Palpatine – ma anche Dr. Evil (il cattivo di Austin Powers), Mr. Burns (quello dei Simpson), The Dark Lord (Il signore degli anelli) Oswald Cobblecot (il Pinguino dei Batman) e Big Time (il soprannome che gli aveva dato George W. Bush), la rete via cavo Showtime aveva in programma un documentario.

The World According to Dick Cheney, diretto da R.J. Cutler (nominato all’Oscar per The War Room, sulla prima campagna elettorale di Bill Clinton) non è, come ci si sarebbe potuti aspettare, la classica biografia non autorizzata che ripercorre la nefandezze di Cheney (da segnalare nel genere Bush’s Brain, su Karl Rove) o il gran ritratto shakeasperiano di un uomo politico che riconsidera la sue scelte alla luce della Storia, come aveva fatto Robert McNamara in The Fog of War, di Erroll Morris.

Dopo averlo corteggiato a lungo, R.J. Cutler è riuscito a convincere l’ex numero due di W a concedergli una lunga intervista. «Non passo molto tempo a riflettere sui miei difetti», esordisce Cheney tranquillo, roseo e un po’ dimagrito dopo il trapianto di cuore. Ha l’aria di uno con la coscienza a posto e poco preoccupato dei suoi indici di gradimento: «gli uomini che trascorrono troppo tempo a cercare di essere benvoluti non ottengono molto. Se hai bisogno di farti amare va a Hollywood». Il doc corre veloce sull’infanzia in Wyoming, dove Cheney si fidanza giovanissimo con l’attuale moglie, Lynne. Sarebbe stata lei, con un out out deciso, a rimetterlo sulla strada giusta, dopo che era stato espulso due volte da Yale (odierà sempre l’aura elitaria dell’Ivy League e si laureerà invece all’Università del Winsconsin) e due arresti per guida in stato di ubriachezza. I sixties, per sua ammissione, sono uno shock, l’esperienza più formativa della sua gioventù, seguita immediatamente dopo dall’incontro con Donald Rumsfeld che, portandolo con sé prima alla Casa Bianca di Nixon e poi a quella di Ford (dove li chiamavano i pretoriani del presidente) ne fece, a trentatré vicecapo di gabinetto più giovane della storia.

Convinto sostenitore della prima invasione in Iraq (era il ministro della difesa di Bush Sr.), Cheney è stato uno dei principali architetti della fiction che ha portato alla seconda – falsi dati presentati al Congresso e all’Onu sulle armi di distruzione di massa di Saddam, terrorismo psicologico nei confronti del pubblico attraverso la manipolazione dei media…. Anche lì Cheney non fa una piega: abbiamo agito per proteggere l’America. Ma come la mette col fatto che le armi di distruzione di massa alla fine non c’erano? Abbiamo trovato le prove che intendeva svilupparle. E gli interrogatori straordinari? Il waterboarding? Ci hanno aiutati tantissimo. Non lo considero tortura. Nulla attacca, peggio che Teflon.

Alla fine, Cheney non solo non si pente: con quel suo sorriso sinistro, proprio in chiusura del film, garantisce che se si tornasse indietro nel tempo «rifarei tutto esattamente nello stesso modo» (e qui va evocato il più letterario tra i soprannomi del Vp: pit of infinite darkness, pozzo di oscurità infinita). Per rileggere veramente il decennio buio del post 11 settembre attraverso lo sguardo di uno dei suoi artefici principali bisognerà quindi aspettare il documentario che Erroll Morris sta facendo su Donald Rumsfeld.
Nel frattempo, il mondo secondo Dick Cheney (titolo che è veramente la migliore descrizione possible del film), fa ancor oggi una paura terribile.