In Europa si parla molto in questi giorni di Niger, paese eletto a partner della lotta all’immigrazione e futura sede dei campi per migranti, insieme al vicino Ciad.

Non si è parlato, invece, delle inondazioni che lo hanno colpito nelle ultime settimane: un bilancio durissimo, almeno 44 morti e 70mila sfollati, 4.500 capi di bestiame perduti.

Il centro del disastro è Niamey, la capitale lungo il fiume Niger (frequentemente colpita dalle alluvioni), che conta 17 vittime. Le autorità hanno invitato la popolazione a lasciare le case e a rifugiarsi nelle scuole.

Un’emergenza che ricorda quella dello scorso anno, quando le vittime furono 60. I primi bilanci sono impietosi: il governo ha calcolato in 6,5 milioni di dollari il budget necessario ad affrontare l’emergenza e ha fatto appello alla comunità internazionale per raccogliere i fondi. Ma la crisi non è nuova: da giugno il Niger è colpito da eventi simili, già a maggio l’Onu parlava di almeno 106mila sfollati.

Ma il paese subasahariano non è il solo ad essere flagellato. Negli ultimi giorni le piogge monsoniche hanno provocato la morte di oltre 1.200 persone tra Nepal, Bangladesh e India: quelle che sono state descritte come «le alluvioni più dure dell’ultimo decennio» hanno distrutto interi villaggi e terre agricole, andando a colpire direttamente 40 milioni di persone.

Nelle stesse ore in Yemen perdevano la vita 18 persone nel distretto di al-Maqatira, sempre a causa delle piogge monsoniche. Un disastro che si aggiunge a guerra e colera: le alluvioni – denunciano le organizzazioni umanitarie – sommate a cattive condizioni igieniche, mancanza di ospedali e infrastrutture collassate, aumenteranno i contagi.