Raffinato disegnatore di gatti, Cesare Damiano si autoritrae come ‘laburista’ del Pd. “Ma non certo quello di Blair – precisa – io faccio parte della sinistra del partito”. Un partito che ha contribuito a fondare, dopo 30 anni in Cgil. E che secondo lui deve oggi nuovamente focalizzare la sua identità, dopo la stagione di Matteo Renzi segretario e premier che ha portato al Jobs act, e alla conseguente perdita di diritti e tutele per il mondo del lavoro.

Il condizionale è ancora d’obbligo, ma sembra proprio che Enrico Letta diventerà il nuovo segretario del partito. Una buona notizia per il Pd?

“Penso che il Pd abbia al suo interno le risorse per individuare un nuovo segretario. Letta è una buona soluzione. Posso dirlo come testimone diretto, perché quando ero ministro del lavoro nel secondo governo Prodi, lui era sottosegretario alla presidenza del consiglio. Insieme abbiamo gestito il protocollo del 23 luglio 2007 siglato con le parti sociali, che dopo quello di Ciampi nel ’93, firmato sempre il 23 luglio, è stato il secondo, vero protocollo di concertazione. Ricordo le serate passate a casa di Tommaso Padoa Schioppa, per convincerlo a scucire i 40 miliardi destinati ai lavoratori più deboli e ai pensionati più poveri. Enrico è capace di esercitare un ruolo di direzione. Di stare sui problemi. E noi abbiamo bisogno di avere un segretario a tutto tondo, che non può essere temporaneo e deve restare in carica fino al 2023. Alla conclusione del mandato congressuale. Questo perché deve affrontare, nell’ordine, i vaccini, il Recovery plan, le elezioni amministrative di autunno, e l’elezione del capo dello Stato”.

Insomma un segretario che abbia pieni poteri.

“Deve averli. Le richieste di un congresso da parte di Base riformista sono irrealistiche e inaccettabili. Basta ricordare le motivazioni con cui Sergio Mattarella ha spiegato l’impossibilità di tenere elezioni politiche in tempo di crescente pandemia. E io non credo ai congressi virtuali”.

Nel suo ultimo tweet del 4 marzo lei ha scritto: ‘E’ bene che il segretario Zingaretti resti al suo posto’. E’ stato un addio frettoloso? Oppure il segretario ha tirato le somme di una strategia politica, quella dell’alleanza organica con M5s e Leu, indigeribile per una parte del Pd?

“Ho chiesto a Nicola di restare perché, in quel momento delicato, come tanti sono rimasto sorpreso dal modo con cui si è dimesso. Avrei preferito una sede formale e una discussione politica. Comunque lui ha scelto di non tornare sui suoi passi, e allora bisogna voltare pagina, in un momento molto difficile per il Paese. Certo era stato eletto con più del 60% dei voti, quindi sarebbe stato in grado di indirizzare le scelte del partito. Si trattava di una maggioranza solida, ma la minoranza si è comportata come se il congresso non si fosse tenuto. Invece sul piano delle possibili alleanze, siano esse quella Pd-M5s-Leu o un ritorno allo spirito ‘ulivista’, a mio avviso è sbagliato teorizzarle in astratto, se prima non ci poniamo il vero problema del Pd: la sua identità. A chi si rivolge? Qual è la sua proposta programmatica? Di questo va discusso. Mentre sarebbe inutile tornare alla vecchia discussione sulle origini, su Ds e Margherita. Il passaggio relativo all’identità culturale del partito, in primo luogo sui temi sociali, è già stato fatto”.

Però molti critici parlano di un partito vuoto, senza idee, invecchiato precocemente e timoroso di ogni apertura. Un partito che è solo un cartello di correnti.

“Secondo me è il segno che abbiamo smarrito la nostra anima ‘sociale’, dopo gli anni di Renzi e del Jobs act. Allora dobbiamo riconquistarla, pensando a come deve essere un partito progressista, democratico, che occupa un campo preciso dello schieramento politico, di sinistra o centrosinistra che dir si voglia. Dobbiamo insomma rimediare a quell’indebolimento dell’identità sociale del Pd che si è manifestato negli ultimi anni. E che ha portato molti nostri elettori ad essere sfiduciati. Delusi. A tal punto da rifugiarsi nell’astensione, o addirittura a decidere di cambiare il loro orientamento politico”.

Un’ultima domanda. Ma tutto quel che è successo non sarà colpa dei miliardi del Next generation Ue, di fronte i quali si è compattato uno schieramento largo e variegato, non solo politico, che riteneva il secondo governo di Giuseppe Conte inadeguato a gestirli?

“Sicuramente questa montagna di miliardi in arrivo dall’Europa, che dopo molti anni di rigore ha finalmente ritrovato la strada della solidarietà, fa gola a molti. A questo si è aggiunta la scelta, irresponsabile e dissennata, di Renzi, che ha fatto saltare il banco. Ma in questo il Pd non ha alcuna responsabilità. E per certo, a quel punto, la scelta di Mario Draghi è stata obbligata. Invece, quanto a noi del Pd, se Enrico Letta diventerà segretario sarà ‘misurato’ immediatamente, alla scadenza il 31 marzo della cassa Covid e del blocco dei licenziamenti, e nel confronto con il governo sul Recovery plan e il piano vaccinale”.