La direzione che deve approvare il pacchetto delle regole del congresso si risolve nell’intervento preoccupato di Epifani e nella rapida lettura delle nuove regole, cioè quelle vecchie, da parte – stavolta – del renziano Stefano Bonacini. Sì all’unanimità, solitaria astensione dell’ex presidente della provincia di Cagliari Graziano Milia. Se mai si faranno le primarie, i candidati dovranno formalizzare la loro corsa entro l’11 ottobre. È archiviata così, in fretta e in furia, la querelle che ha occupato il dibattito democratico per tutta l’estate. Gianni Cuperlo propone agli altri tre candidati (Renzi, Civati e Pittella) un gentlemen’s agreement: «L’8 dicembre si elegge il segretario e chi avrà la responsabilità di guidare il Pd si impegna a garantire che, quando si andrà al voto, ci siano primarie per il candidato premier». Il bersaniano Davide Zoggia si incarica come sempre della chiosa del realismo: «Il congresso è importante, ma se le cose precipitassero la direzione valuterà per il meglio». L’organismo resta infatti in convocazione permanente. Al Nazareno è scattato l’allarme rosso.

Non è infatti il momento di parlare di congresso. La crisi precipita. Il segretario Guglielmo Epifani aspetta il suo turno per parlare con Enrico Letta. Che, appena sbarcato da New York, fa le sue consultazioni a Palazzo Chigi prima di salire al Colle. Dopo Alfano e Franceschini, il colloquio di Epifani dura un quarto d’ora. Il tempo di riferirgli quello che ha detto in mattinata: «Il Pdl scherza con il fuoco. Una crisi ora è da irresponsabili. Stiamo vedendo la ripresa e il Pdl sta rischiando di far precipitare di nuovo la situazione economica». Quello che sta facendo il Pdl, è la conclusione, «va preso sul serio» quindi «tocca al premier aprire in parlamento un chiarimento che deve essere chiaro e risolutivo».

Il Pd non gioca più alle larghe intese. Dalla ’base’ i segnali del logoramento sono inequivocabili, e adesso anche la pattuglia parlamentare dem si accorge che governare con «gli eversori» (definizione inedita di Bersani) non paga. Nel pomeriggio i ministri Pd, prima di andare a Palazzo Chigi per verificare che non ci sono le condizioni per la manovra, fanno un punto con Dario Franceschini, anche lui nell’inedita versione combat: «È il momento della chiarezza, non c’è più tempo per ipocrisie e furbizie», ha detto in mattinata. Il Pd ora vuole lo showdown. La sceneggiata delle dimissioni congelate dei parlamentari Pdl è davvero la goccia che fa traboccare il vaso? Forse. Ma di «verifica di maggioranza» sia Letta che i dem parlavano – è cronaca – ben prima del viaggio del premier negli Usa. Ora è tutto un fiorire di larghintesisti che cambiano toni: «Rilanciare in parlamento un voto di fiducia è l’unica mossa utile e rispettosa delle istituzioni», dice Anna Finocchiaro. «Il problema si affronta alla radice. O si verifica che c’è una maggioranza o si va al voto», taglia corto Nico Stumpo. «Il voto anticipato porterebbe allo stallo», replica il viceministro Fassina.

Nel «Pd combat» ci sono accenti diversi. Chi, come il presidente della Toscana Rossi chiede «una maggioranza nuova su pochi punti di governo e di cambiamento», appellandosi a Sel, ai senatori 5 stelle e ai «i pidiellini che non intendono farsi trascinare nel gorgo distruttivo del capo». E chi invece, nel caso il Pdl dovesse votare no alla fiducia, pensa a un nuovo governo solo con le colombe pdl, per trascinare in qualche modo avanti la legislatura fino a fine del 2014, e cioè al compimento del semestre di presidenza italiana Ue. Idea che non dispiace a chi, nel Pd, vede bene l’idea di un Matteo Renzi alla guida del partito – sempreché la precipitazione della crisi non archivi il congresso -, ridotto ad aspettare il suo turno e a coabitare con Letta a Palazzo Chigi.

Ma questa ipotesi prevede davvero un Letta bis, o piuttosto un cambio di premier? Sel batte un colpo, chiedendo l’uscita ’da sinistra’ dalla crisi. «Serve un governo di scopo, per fare una nuova legge elettorale e provvedimenti che salvaguardino le persone che più stanno pagando la crisi. Un governo di scopo deve essere fatto con tutti quelli che ci sono: chi non c’è sta dando le dimissioni per gli interessi del proprio capo», attacca Gennaro Migliore. Ma Sel sarebbe disponibile a un Letta bis? «Dipende dalla mission che si dà», per Migliore. «Non è questione di nomi ma di segnare una discontinuità», insiste Nicola Fratoianni. Una «discontinuità» che dai tempi del tentativo Bersani, non è nei numeri del parlamento. E neanche, forse, nella mente del presidente Napolitano.