I discorsi dei dissenzienti del Pd sul ddl scuola erano pronti: prima dolorosamente meditati, poi prudentemente scritti. Ma niente da fare: alla fine Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre e Gianni Cuperlo non prendono la parola in aula. «Non si può», spiegano dai banchi della presidenza di Montecitorio: i tempi, contingentati, sono stati consumati. Lo show finisce qua, almeno per ora. È una piccola delusione per la galassia della minoranza Pd. Ma meglio così, per una volta non si noteranno le quaranta piccole differenze inscritte in voti uguali solo all’apparenza. Anzi, ’non voti’: di 40 deputati che non partecipano al voto, 28 appartengono alla sinistra Pd (Civati vota no ormai è nel gruppo misto e va scorporato dalla contabilità del malpancismo dem). Fra loro c’è Bersani, Speranza, Cuperlo, Fassina, D’Attorre, Pollastrini, Stumpo, Zoggia, Galli. Con qualche variazione è lo zoccolo duro del non voto sul jobs act e sull’Italicum.

Più tardi in «una cinquantina» non meglio dettagliata sottoscriveranno un documento che chiede che al senato la legge cambi: sui poteri di chiamata diretta dei presidi, sulle assunzioni degli insegnanti e sui soldi alle paritarie. Ora dunque la palla passa ai senatori, che già battono un colpo: «Al senato la minoranza Pd farà la sua parte», avverte Miguel Gotor.

Ma se ne parlerà a giugno. Prima c’è il risultato delle regionali che deciderà il futuro del Pd. Il nodo della scuola è delicato e segnerà sorti di molti. Fassina non fa mistero che se la legge non cambierà radicalmente alla fine dell’iter lascerà il partito. Ieri in piazza Montecitorio i prof che manifestavano glielo hanno chiesto con rudezza. Per ora l’ex sottosegretario ha in testa «un percorso» in stretto rapporto con gli altri dissenzienti Pd e non un’altra formazione politica. D’Attorre è avviato sulla stessa strada. Altri ragionano: «Se il testo non cambierà al senato e tornerà alla camera per un voto finale, magari con la fiducia, i trenta ’non voti’ si trasformeranno in no. E di questi un terzo forse anche in un nuovo gruppo».
Difficile da credere? Fra i 28 ci sono quelli che appoggiano Roberto Speranza nel difficile rilancio dell’area dei ’non renziani’. Che da subito, per esempio, aderirà alla campagna sul reddito di dignità di Libera nel tentativo di dare all’area un profilo sociale e combattivo. Ormai la rottura dell’area riformista è compiuta: ieri il ministro Martina, ex bersaniano, ha rivendicato anche ai suoi «dialoganti» il buon esito della legge.

Nella minoranza Cuperlo fa parrocchia a parte. Ma non può non porsi il problema di come restare nel Pd, come spiegava ieri in Transatlantico: «Un chiarimento su che cosa vuol dire stare dentro il partito, lo sento come una esigenza abbastanza urgente. Ma andrà fatto dopo le regionali». Ma certo, la situazione della minoranza irriducibile è al limite: «Non abbiamo votato la delega al lavoro, la fiducia alla legge elettorale, non abbiamo votato la legge elettorale, riforma della scuola più di così devi uscire», conclude sconsolato Cuperlo. E per lui di uscire non se ne parla.

Ma chi resta, che resta a fare? La sinistra Pd darà filo da torcere sul nuovo capogruppo alla camera, ma comunque vada la battaglia non interesserà le masse deluse e sconfortate. Per di più le cronache annotano anche un episodio rivelatore. Martedì sera il governatore del Lazio Zingaretti, da molti considerato la «carta coperta» della sinistra Pd in un futuro ancora però lontano, ha dato una rispostaccia a Renzi che da Porta a Porta lo accusava di aver alzato le tasse senza ragione: «Il governo ci ha tagliato circa 725 milioni di euro in due anni. Se ce li restituisce siamo pronti ad abbassare subito Irap e Irpef». Un tono duro, mai visti in un anno di governo durante il quale Zingaretti è stato religiosamente attento a non uscire mai dal profilo del bravo amministratore, tenendosi alla larga dalle risse interne. Con l’unica recente eccezione di un tweet di appoggio alle manifestazioni del prof. Ma è bastata una zampata delle «fonti di Palazzo Chigi» per far cambiargli idea e fargli subito twittare il chiarimento con il premier. Con tanto di hashtag renziano #lavoltabuona in eloquente segno di resa. Un piccolo, impercettibile segnale disperante per la minoranza Pd.