«Cos’è il riformismo? Se dopo vent’anni, durante i quali abbiamo governato ampiamente anche noi, l’Italia è più ingiusta e le differenze sociali sono aumentate, che riformismo abbiamo praticato?». La domanda è impegnativa, tremenda, soprattutto se a porsela è uno dei fondatori del Pd, Goffredo Bettini, padre fondatore, oggi – dopo dieci anni e tante cose cambiate – europarlamentare fuori dall’ingranaggio del Nazareno ma profondo conoscitore della sua gente.

La risposta si trova in Agorà. L’ago della bilancia sei tu (edizioni Ponte Sisto, sarà presentato a Roma (al Teatro de servi alle 17 e 30), fra molto altro: Pasolini, Berio, Ingrao, il cinema e i racconti in prima persona di chi ha vissuto fra i protagonisti della sua parte.

Il libro presenta riflessioni ad ampio spettro, sul filo del personale – il sottotitolo è una citazione di Jung – e del politico, della cultura, il finale è una ridefinizione e riabilitazione della «nostalgia», termine sbeffeggiato dai nuovisti e rottamatori di tutti i tempi.

Ma nelle pagine c’è un filo innegabile ed è quello del Pd. In quello di oggi, dell’imbrunire post-renziano, Bettini non vede l’alba del 2007: respinge la tesi che l’uno sia l’ineluttabile evoluzione dell’altro. Il «riformismo» dem si è perso per strada, è la tesi, perché è mancata la «spinta» al cambiamento. Ed è mancata perché «il riformismo è una pratica del conflitto, che dispiega in un processo lungo. Ma di conflitto si tratta».

La parabola si coglie quando l’autore mette a confronto i discorsi di alcuni leader e – quando siamo alla serie dei segretari Pd – lo scolorire fino allo sparire della parola «giustizia» nel discorso di insediamento alle camere di Matteo Renzi, nel quale pure Bettini aveva creduto, «che espunge del tutto il conflitto sociale e tra i diversi interessi». Bettini riferisce il commento di un importante imprenditore romano: «Caro onorevole, il vero merito di Renzi è di aver definitivamente rotto ogni legame con i comunisti italiani». E che significa? L’autore ci riflette e si risponde: «Finalmente, dissolvere il conflitto in fabbrica e nella società, accettare le regole ineludibili, così come sono, del capitalismo. Spegnere ogni suggestione di alternativa e di critica».

Qui è la chiave. Invece il gruppo dirigente si è acconciato sul presente e si è inventato un finto conflitto, la «stucchevole polemica tra il vecchio e il nuovo», ormai pure ridicola perché l’unico leader socialista europeo che non ha un partito in agonia è Corbyn, «più moderno di tanti generici confusi innovatori». Peraltro l’ex comunista ingraiano Bettini in teoria è dalla parte degli innovatori, detesta chi «fossilizza la propria radice nel burocratismo e nella riproposizione di formule consumate».

Ma nel dibattito – nota Andrea Orlando nell’introduzione – «il partito è usato come una sorta di simbolo», chi voleva rompere con il partito del 900 lo faceva «per sostenere l’inutilità del partito» e di più per «rompere con una cultura della mediazione e della rappresentanza. Con l’idea stessa della politica come strumento di emancipazione. In una parola con la distinzione destra/sinistra».

Nel congresso – sempreché venga convocato – Bettini si schiera con Zingaretti ma aspetta «la sua piattaforma», di capire il tasso di riformismo, fin qui imperscrutabile. Certo il Pd, scrive, è arrivato a un punto: «Nel profondo del nostro movimento (…) si è aperta una divaricazione, perfino sentimentale. Investe la visione che mette in conflitto la ricerca di più adeguati sguardi critici alla convinzione che il nostro mondo è il migliore tra quelli possibili (…). Se non decideremo con chiarezza, lo scontro interno diverrà insanabile: la sinistra si sentirà impotente perché prigioniera di un involucro che non riconosce più e, dall’altra parte, i modernizzatori liberali considereranno la sinistra come una palla al piede che li porta alla sconfitta».