«L’assemblea di sabato è andata malissimo. Si è decisa la data del congresso senza aver fissato con precisione le modalità. Questo rende tutto aleatorio, con il rischio che non si riesca a fare il congresso. Sarebbe una iattura. La direzione di venerdì ha un bel groviglio da sciogliere». Sergio Cofferati, ex segretario Cgil ed oggi europarlamentare, è severo con il gruppo dirigente Pd. «Sono rimasto molto sorpreso degli aspetti organizzativi. Non ho mai visto convocare un’assemblea tanto delicata senza la certezza di poterla concludere in maniera adeguata». Ce l’ha con il pasticcio della mancata maggioranza qualificata per approvare le modifiche allo statuto.

Crede che «un gruppo dirigente rancoroso» ha voluto mandare «in caciara» l’assemblea, come dice Renzi?

No. Ma per quel poco di esperienza di organizzazione che ho, prima si conclude il lavoro della commissione e si arriva ad un accordo, poi si convoca l’assise per discuterlo e approvarlo. Un’assemblea convocata così, invece, porta a una discussione che si presta a tanti condizionamenti. Il risultato infatti è il disastro che abbiamo visto.

Cofferati, un ex leader Cgil come lei, di organizzazione invece se ne intende parecchio. Non crede che qualcuno pensasse che il nulla di fatto era utile alla tenuta del governo?

No. Ma credo, e forse è peggio, alla sottovalutazione drammatica delle conseguenze di alcuni limiti organizzativi. Abbiamo fatto una figura pessima. E grave: un messaggio negativo a elettori e simpatizzanti. Abbiamo alimentato i sospetti sulle reali intenzioni di una parte del gruppo dirigente. Io non credo alla premeditazione, ma oggi il dubbio diventa legittimo.

Quindi esclude un tentativo di rallentare la vittoria, che oggi sembra annunciata, di Renzi?

Lasciamo stare la dietrologia. Anche perché faccio notare che queste vicende non indeboliscono Renzi, semmai lo rafforzano. Io per esempio non sostengo Renzi, considerato favorito, ma penso che il congresso doveva già essere fatto da tempo. È indispensabile, riguarda il partito e la sua futura vita, e dev’essere separato dalle vicende del governo. Tenere le due cose insieme fa solo danni. Dobbiamo fare il congresso perché non abbiamo vinto le elezioni e perché dopo abbiamo dato il peggio di noi nell’elezione del presidente della Repubblica. Lì ci siamo divisi, e malissimo, tanto che siamo stati costretti a chiedere a Napolitano la disponibilità a ricandidarsi perché non eravamo in grado di fare scelte nostre. E siamo stati costretti ad accettare quello che fino a un minuto prima avevamo negato, e cioè governare insieme al nostro avversario politico. Il congresso va fatto per ritrovare un’identità, un’idea di partito e una linea politica. Il tempo che passa ci danneggia perché stringe sempre di più i fili fra il futuro del partito e quello del governo.

Qual è il futuro del governo?

È stato detto che è un governo di necessità, per la situazione drammatica, e a tempo determinato. Ma il programma che si è dato non è certo di breve periodo. E la sua priorità, la riforma elettorale, non è ancora stata neanche affrontata.

Un’altra priorità erano, per Letta, le politiche per l’emergenza economica.

Su questo le opinioni di Pd e Pdl non sono diverse, sono opposte. Quindi inevitabilmente il governo è condannato a fare poche cose e sostanzialmente inefficaci. Stiamo pagando gli effetti di una recessione determinata, certo, dalla crisi internazionale, ma anche aggravata dagli errori dei governi precedenti, e del governo Monti. Questa recessione non è finita, purtroppo. E gli effetti sono pesantissimi. Il governo ha paura che la ridefinizione del profilo politico del Pd metta in discussione la tenuta del governo. E invece la sua tenuta dipende da quello che fa o non fa.

Per questo è difficile che il tema del governo resti fuori dal congresso. Tant’è che dei candidati si misurano anche le distanze dall’esecutivo di Letta.

È una chiave di lettura sbagliata. Io non sono sospettabile di vicinanza alle larghe intese – l’ho detto, se fossi stato nel parlamento italiano non avrei votato la fiducia – ma l’azione del governo va valutata indipendentemente. Del resto nessuno nel Pd, credo, pensa che la futura linea politica possa assomigliare a quella delle larghe intese.

Così dà ragione chi dice – come Beppe Fioroni – che se il segretario Pd è anche candidato premier, Letta da premier in scadenza diventa premier scaduto. Lei è favorevole alla ’separazione delle carriere’?

Il ruolo del segretario va distinto da quello del candidato premier. Intanto perché altrimenti quando cade il governo rischiamo di avere di nuovo il problema del segretario del partito. La separazione fra i ruoli è un vantaggio: ma dove sta scritto che la normale dialettica fra un partito politico e un presidente del consiglio sia rovinosa?

Un leader sindacale di solito usa la parola ’dialettica’ come eufemismo per ’conflitto’.

Non necessariamente. Un premier deve tener conto delle forze che lo sostengono, ed è normale che discuta con il principale partito della sua maggioranza. Dalla dialettica, usata con saggezza, possono venire grandi vantaggi. Invece nel Pd c’è chi ha l’idea che il partito deve sostenere il governo ’a prescindere’.

Lei sosterrà Cuperlo?

Ha un’idea precisa di partito e della sua collocazione nella società. Renzi invece non è chiaro: dice con enfasi che il Pd non è più il partito dei lavoratori dipendenti. Vero. Però non spiega se dobbiamo tornare ad esserlo o no, e se sì come. Io vorrei che tornasse ad esserlo, quindi credo in una linea di politica economica e sociale che risponde in primo luogo ai bisogni dei lavoratori. E credo alla priorità dello sviluppo e della crescita basata su una politica fiscale che si rivolga dove queste risorse ci sono, e cioè nell’area ampia della ricchezza. E credo che servano meccanismi di redistribuzione: perché se non crescono i consumi non si esce dalla crisi.

Non pensa che il Pd di Renzi voglia diventare un riferimento per gli autonomi e per la crescente fascia di lavoratori precari?

Al momento non ha dato una risposta neanche a loro.

In Germania Angela Merkel ha vinto e già pensa a un governo di larghe intese. Non è una buona notizia per i ’non larghintesisti’ italiani come lei.

Merkel non può fare diversamente. Ma avrà un problema. Nel voto tedesco c’è la conferma di un’idea positiva di Europa. Ma lei è la principale responsabile delle politiche di rigore a senso unico che hanno penalizzato l’Europa. Se questa politica dovesse continuare, milioni di cittadini guarderanno con contrarietà alle politiche europee e al ruolo della Germania in queste politiche. Da Merkel mi aspetto una correzione di rotta: lei sa che non deve isolare la Germania. I progressisti la dovrebbero incalzare con più coraggio.

Più che a incalzarla, l’Spd si dispone a farle da stampella. La sconfitta dei socialdemocratici tedeschi ridà fiato ai larghintesisti italiani?

Non credo. Nel caso, li invito alla cautela nell’accostamento dell’Italia alla Germania. Da noi nessuno ha il 42 per cento. Le larghe intese con due partiti equivalenti, e con un terzo dello stesso peso fuori, pone qualche contraddizione in più.