La figura femminile avvolta in un abito verde a fiori è di spalle, poggiata sul davanzale di un’apertura quadrata nella parete di adobe. Guarda le linee increspate della superficie del mare, concentrata sull’orizzonte. Una storia, anzi tante possibili storie, si sovrappongono nel sollecitare la fantasia dell’osservatore che Moataz Nasr (Alessandria d’Egitto 1961, vive e lavora al Cairo) indirizza al cuore di un racconto che va oltre l’apparenza. L’immagine è uno still della videoinstallazione The mountain, realizzata nel 2017 per la 57/a Biennale d’arte di Venezia. Nel padiglione ai Giardini, la visione del video di 12 minuti (proiettato su cinque schermi) era intensificata da un approccio sensoriale che includeva suono e olfatto, con il pavimento ricoperto di terriccio. Alla galleria Continua di San Gimignano, dove è riproposto nella personale Paradise Lost, curata da Simon Njami (fino al 6 gennaio 2020) – insieme ai 90 disegni in bianco e nero dello storyboard – l’effetto non è meno potente, malgrado i tre schermi e l’allestimento più essenziale.

NEL FILM, NASR affida un ruolo decisivo alla giovane donna nell’incarnare la libertà, sfidando pregiudizi e superstizioni, sfoderando un coraggio che anestetizza la paura. Non a caso la montagna (a cui allude il titolo) è un simbolo femminile di energia vitale. L’autonomia del linguaggio artistico di Moataz Nasr, curioso sperimentatore di tecniche e discipline, si fonda su una costruzione simbolica in cui lo spazio liminale (prendendo in prestito il titolo della mostra The Barzakh / Lo spazio liminale, curata da Achille Bonito Oliva a Castel del Monte, visitabile fino al 30 novembre) è la chiave per definire un’area metaforica della ricerca di una nuova coscienza.

Sulla dialettica simbolo/spazio metaforico è costruita anche questa illusoria rappresentazione di paradiso perduto in cui, come afferma il curatore Simon Njami, la mostra è il bivio di un percorso in cui scegliere se proseguire verso la speranza (paradiso) o la disillusione (inferno). «Ritroviamo la montagna, la donna, il serpente. L’albero maestro nella sala cinematografica potrebbe fungere da albero: la struttura che occupa l’ingresso da prisma, da passaggio segreto verso un mondo sconosciuto agli esseri umani», scrive Njami. Miti antichissimi e contemporanei sono fonte d’ispirazione per Nasr, che li estrapola dalla loro dimensione univoca di appartenenza a un determinato ambito temporale, culturale e geografico per ridefinirli in una chiave di contingenza di valore universale. È così per il grande rosario Petro Beads (dove la religione esula dall’implicazione spirituale) o nella G Tower di bombole di gas che rappresenta il potere. Simbolo di fragilità, questa torre potenzialmente esplosiva è collocata al centro della platea dell’ex cinema-teatro, tra la capanna di remi/pale per infornare il pane (Shelter) e la mappa del Medioriente realizzata con i fiammiferi (Flammable): eloquente esempio dell’equilibrio precario su cui si fonda la società contemporanea. Le altre due mappe sono in cristallo (Shattered Glass) e ceramica crettata (Craquele). Altra potente metafora che ci riporta alla crisi dei migranti, in particolare al dramma dei campi libici, sono le foto del mercato degli schiavi (The Slave Market) ispirate ai dipinti di Gérôme.

DALL’ANTICO EGITTO arriva, invece, l’opera Apophis. Alla figura di Apopi, che nella mitologia veniva rappresentato come serpente e incarnava caos, male e tenebre, è affidata l’ambigua trasposizione metaforica del momento conflittuale in cui viviamo, con un’allusione forse più specifica all’attuale situazione politica in Egitto. Fondamentalmente la mostra parla di migrazione nei diversi aspetti, non solo come movimento da un luogo all’altro. «Si emigra per il pane, per una vita migliore e per paura, ma c’è anche una migrazione interiore di crescita individuale», dice Moataz Nasr nel cui lavoro è sempre presente una continuità tra il prima e il dopo.