Si immagini un sistema di governo fondato sul principio secondo cui la sovranità popolare «non può essere rappresentata», perché nel momento in cui si dà dei rappresentanti «il popolo non è più libero». Oppure, al limite, nella misura in cui una qualche rappresentanza si rivelasse inevitabile, la si volesse attenuare quanto più possibile attraverso la tassativa «convocazione periodica delle assemblee», connessa al «mandato imperativo» per i deputati di esprimersi secondo quanto stabilito dalla volontà popolare, pena la revoca del mandato stesso per alto tradimento di quella stessa volontà.

Sembra inequivocabilmente il fondamento costitutivo del Movimento 5 stelle, mentre in realtà è quanto scriveva nel XVIII secolo il filosofo Jean-Jacques Rousseau, nel Contratto sociale e nelle Considerazioni sul governo della Polonia.

In altri tempi si sarebbe parlato, a tal proposito, del mito della «democrazia diretta», mentre oggi il linguaggio politologico si esprime in termini di «dis-intermediazione». Ossia di tendenza verso la messa in discussione sempre più ampia di tutti quegli istituti pubblici che possono svolgere una funzione di intermediazione tra il popolo e chi li governa. Che si tratti dei sindacati, dei vecchi mezzi di informazione (contrapposti ai nuovi, impersonati dalla Rete) o dei partiti politici, tutte istituzioni che sentono mordere forte la crisi culturale prima ancora che economica, poco importa ai fini di quella che si rivela come una tendenza costitutiva dell’odierna «democrazia ibrida».

A usare questa espressione, che dà anche il titolo al suo ultimo libro, è il politologo Ilvo Diamanti (Democrazia ibrida, Laterza, pp. 137, euro 5,90), secondo il quale «la democrazia ibrida che stiamo attraversando denuncia la crisi della democrazia rappresentativa, apertamente sfidata dalla democrazia diretta». Essa propone una «miscela di elementi vecchi e nuovi», che si combinano a fatica e continuano a mutare in modo fluido, così da rendere arduo il compito di volesse capire verso quale futuro ci dirigiamo.

In questo modo, sospesi tra un passato che non passa e un futuro che non è più quello di una volta, navighiamo a vista in un’epoca in cui quasi la metà degli italiani pensa che la democrazia sia possibile «anche senza i partiti», mentre oltre il 30% ritiene che si possa (convenga?) fare a meno della democrazia rappresentativa e, tanto per ricordare alla Storia che non amiamo affatto essere suoi allievi, circa il 70% auspica l’avvento dell’«uomo forte».

Crollata la fiducia nell’Unione Europea (- 20% in dieci anni), mentre le uniche istituzioni a salire nella considerazione degli italiani sono le forze dell’ordine (+ 4) e la Chiesa (+10), forse a dimostrazione di un bisogno sempre più diffuso di sicurezza ma anche di una salvezza che non sembra più raggiungibile nel mondo terreno.
Ma che non si tiri in ballo il solito refrain della disaffezione. Certo, nessuno può negare la diffidenza nei confronti dello Stato e delle istituzioni in genere, la frustrazione pubblica e la rabbia antifiscale, oltre all’angoscia per un futuro che è stato scippato ormai a più di una generazione. Ma questo non ha significato una diminuzione della partecipazione sociale, che piuttosto si estrinseca e declina attraverso modalità e strumenti profondamente mutati.

Scopriamo allora che circa 5 italiani su 10 dichiarano di aver frequentato, nel corso del 2013, manifestazioni politiche sia di tipo tradizionale che nuovo (attraverso la Rete, il consumo responsabile, la mobilitazione di gruppi single-issue e le campagne di opinione).
In particolar modo i più giovani (15-24 anni) mostrano un coinvolgimento molto più ampio (36%) nelle manifestazioni di protesta e di attivismo online.

Insomma una società, quella italiana, che malgrado il disagio diffuso e la crisi (anche di fiducia) intende comunque muoversi sul quel terreno liquido e quindi scivoloso che è rappresentato dal vuoto lasciato dagli attori e dalle istituzioni rappresentative.

Un vuoto che è stato sottolineato dalle elezioni politiche del 2013, in cui l’astensione ha raggiunto la cifra record del 25% (la più elevata nella storia della Repubblica), e certamente aggravata dai dati sconfortanti che sono provenuti dalle recenti elezioni regionali in Calabria ed Emilia Romagna, dove il partito dell’astensione si è rivelato di gran lunga il «preferito» dagli elettori.
Il dato che sembra riassumere, in qualche modo, tutte queste metamorfosi politiche della contemporaneità, è rappresentato dal fatto che quasi 3 italiani su quattro si dicono favorevoli all’elezione diretta del Presidente della Repubblica. La riprova più netta di uno scenario in cui il «popolo» sembra votarsi a personalità forti e risolutive, possibilmente emancipate da quei carrozzoni lenti e inefficaci che paiono essere i vecchi partiti e, in generale, le istituzioni di intermediazione fra chi governa e chi è governato.

Ma proprio a questo punto, ossia sul più bello, sembra interrompersi la pur lucida e professionale disamina dei dati operata da Diamanti. Quasi come se lui stesso, dopo averlo denunciato, non fosse riuscito a librarsi oltre quell’eterno presente che, appunto, presenta troppe nozioni (e in maniera troppo veloce) proprio per impedire il subentrare della visione d’insieme.

Eppure è sufficiente richiamarsi alla definizione di democrazia che forniva Bobbio (quel regime in cui «i governati hanno il potere di controllare i governanti», e non viceversa) per comprendere come non è sufficiente certificare la crisi della democrazia rappresentativa e, con essa, di tutte le istituzioni di intermediazione.

Quanto piuttosto fare i conti con l’unica «istituzione» che ha avuto interesse dapprima a proclamare la fine delle ideologie, quindi a smantellare proprio le istituzioni di intermediazione fra governanti e governati, col solo scopo di plasmare e controllare senza più freno alcuno l’opinione pubblica e, quindi, sostituirsi alla «politica» come dimensione centrale della sfera pubblica. È superfluo dire che si tratta dell’«economia», no?!