Chi è Madalena lo scopriamo un po’alla volta anche se hitchcockianamente all’inizio del film viene trovato un cadavere negli infiniti campi di soia in cui ci accolgono due struzzi. Lo dice a Luziane la madre con la quale lavora, ma lei non pensa a Madalena, anzi bussa alla sua porta in cerca di soldi, dalla casa si sente la musica e però nessuno risponde.

Brasile, un’area nel Mato Grosso fatta di sobborghi poveri e zone per ricchi protette dalle recinzioni, è lì che vive Cristiano, giovane rampollo di proprietari terrieri con la frustrazione di provare alla famiglia, al padre soprattutto che è in grado di occuparsi delle piantagioni di soia, ettari infiniti solcati dall’alto dai droni, al cui limite non arriva nessuno. Quelle piante cresciute «intensivamente» divorano la terra, natura post-umana ostile che si scontra con l’ambiente di cui non fa più parte – un po’ come gli uomini che le crescono. Poi c’è Bianca, una persona trans che lavora in una casa di riposo per anziani, lei e le sue amiche ci racconteranno di Madalena – che «era sempre una signora anche quando era sbronza» svuotando la sua casa prima di chiuderla.

MA SE LA QUESTIONE degli omicidi di persone transessuali nel Brasile di Bolsonaro è presente nell’opera prima di Madiano Marcheti, Madalena – come il nome della protagonista «fantasma» fuoricampo ma al centro di questa narrazione – non è e non vuole essere solo questo. Prodotto tra gli altri da Joel Pizzini, che aveva diretto insieme a Paloma Rocha un film dedicato a Glauber qualche anno fa – Anabazys (2007) presentato negli Orizzonti della Mostra di Venezia – Madalena (nel concorso di Rotterdam, tra i migliori titoli visti finora) lavora sull’invenzione di uno spazio dell’immaginario per far emergere i conflitti della realtà. È il paesaggio il punto di partenza del regista – che in quella parte del Brasile è nato (nel 1988 a Porto dos Gauchos) – in cui ritrova anche quel sentimento comune al cinema brasiliano dei «padri» che proprio nei luoghi fisici e emozionali radicavano le loro storie per reinventare il cinema e la vita. Attraversato da forze misteriose – o è solo lo sguardo di chi lo osserva? – surreale nei riti di un quotidiano della sopravvivenza, in un vuoto che sembra moltiplicarsi all’infinito tra piantagioni e il movimento delle macchine agricole, questo luogo è la natura e il suo contrario. E chi lo abita dove si pone?

QUANDO le amiche portano via le cose di Madalena tenendosi qualcosa per ricordo, il film si sposta dentro questa piccola comunità trans, nelle loro esistenze di risate e liti, di uomini crudeli, di violenza, di fantasie. Le seguiamo in una giornata al fiume, i campi di soia spariscono lasciando il posto al bocsco e a una malinconica dolcezza. I corpi nell’acqua, il sole, la macchina da presa prova a catturare il flusso del tempo e delle emozioni – è anche la parte più bella del film, in cui l’autore appare più libero nel suo gesto di filmare – che nell’armonia con la terra, con quell’istante esprimono quasi una resistenza, una dichiarazione di essere al mondo.

 

Leah Dou è una musicista conosciuta in Cina e non solo – visto che canta in inglese, figlia di Faye Dong, «la regina d’Asia», iconica interprete da giovanissima di Chunking Express di Wong Kar-wai (1997), diva amatissima nel continente. È lei che Queena Li he ha voluto come protagonista della sua opera prima, Bipolar (concorso) – in cui Leah Dou è anche autrice delle musiche e canta – per un personaggio che è sempre in campo, sempre presente in un lunghissimo e straripante viaggio in bianco e nero e a colori, on the road fantastico e insieme «trip» lisergico di fantasie, leggende, tradizioni, storia cinese che sarebbe piaciuto a Timothy Leary .
Dalla prima apparizione – un incubo acquatico nel quale si vede con lei una figura che ritorna, un ragazzo giovane, bellissimo che lei però respinge nel fondo della memoria – ogni fotogramma sarà una prima persona immaginifica di fantasmagorie e fascinazioni. La prima, il Tibet, un fantasma cinese – per molta parte del film si parla in tibetano. Magico, sacro, dove anche i bambini parlano con le poesie del Budda, e al tempo stesso – visto dalla parte cinese – arcaico, medievale, che se si rompe una macchina è impossibile ripararla.

È QUEL RICORDO misterioso che fluttua nell’acqua a portarla a Lhasa, dove ci si va – come le dice l’avventore del bar – solo per un pellegrinaggio e mai senza motivo? Nel centro della sala affollata c’è un’aragosta, i proprietari dell’hotel dicono che è sacra, che arriva dalle acque intorno al faro di un’isola remota: sarà un’altra menzogna? Però la ragazza la ruba, vuole riportarla alle sue origini, liberarla e con lei forse liberare se stessa.
Anche Bipolar – pure se di segno radicalmente opposto a Madalena – è un film radicato nel suo paesaggio(e un film di fantasmi); un western onirico tra monaci e comunità segrete, e la geografia di un’anima inquieta di fronte al dolore, al lutto da elaborare e da fuggire. Caotico, punteggiato di riferimenti – senz’altro troppi – e ambizioni di respiro (peccato non vederlo sul grande schermo) rivela però un talento che sa usare l’inventiva, che cerca la sua meraviglia attraverso il corpo dell’attrice, nel suo stupore, nella sua stanchezza, tra le improvvise epifanie in cui si racchiude la percezione di un altrove che porta con sé la Storia.