Io,come del resto anche i «sessantottini», non appartengo a quella che ormai chiamiamo «generazione di Genova», per sottolineare il fatto che la data in cui è maturata non è un tempo qualsiasi, bensì uno di quei rari momenti in cui coagula, attorno ad uno specifico evento, un processo che segna un passaggio storico. Proprio per questo, perché questo trapasso posso guardarlo da lontano, sapendo del come era il prima, avverto di più la portata della transizione ad un dopo diverso che in quel luglio del 2001 trovò nel capoluogo ligure il suo simbolico ingresso nella consapevolezza della politica ufficiale.

Ad avviare il percorso c’erano già stati il Forum Sociale di Porto Alegre e altre prime mobilitazioni via via che emergevano le conseguenze della linea di cosiddetto sviluppo dei paesi cosiddetti sottosviluppati imposta dalle due prime istituzioni internazionali di cui si cominciava ad avere contezza: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.

Ma mai prima di quel G8 era stato reso evidente quanto oramai ogni decisione che ci riguardava dipendesse da oscuri poteri sovranazionali. Basta del resto andare a guardare negli archivi delle organizzazioni politiche non specializzate ma dotate di grande peso, quasi tutti i partiti, per esempio: non troverete in alcuno degli articoli o discorsi conservati nominare sigle che oggi sono diventate pane quotidiano del dibattito politico: Gatt, Omc, Ocse,un accenno ai tanti trattati di libero scambio che pure avevano cominciato ad esser varati. Ricordo ancora la stupefazione dell’Ambasciatore italiano presso una di queste istituzioni quando andai a cercarlo nella sua sede di Parigi per chiedergli informazioni più dettagliate : è la prima «politica» – mi disse – che mi chiede qualcosa.

Io, in realtà, sebbene fossi allora addirittura presidente al Parlamento europeo della Commissione Rex (rapporti economici esterni all’Ue), non ero andata da lui in nome del mio incarico istituzionale ma perché ero stata reclutata fin dai suoi primi passi dal movimento che poi diventerà il grande «no global», nato due anni prima di Genova, a Seattle.

All’epoca Bové impugnò come un vessillo una fetta di Rochefort, lo speciale storico formaggio francese, uno delle migliaia di speciali e storici formaggi europei minacciati di esser eliminati dal dominio della sottilette, l’orribile fettina americana prodotta alla catena di montaggio, in serie e perciò a costi imbattibili. In compenso, insapore.

Subito dopo, e ancora una volta per opera dei primi gruppi dell’embrionale movimento no global, ci fu la grande battaglia contro l’AMI, l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti, capostipite dell’imbroglio tutt’ora perpetrato. Fu chiamata dalla rivista americana Newsweek, che le dedicò la propria copertina, «la prima guerriglia on line»- anche questa una scoperta. Che fu anche una nostra vittoria.

Genova, insomma, fu il momento in cui venne portata all’attenzione di tutti quella che, ma solo dopo, fu chiamata «globalizzazione». Perché, come dice la parola, i movimenti si muovono, e hanno perciò antenne più sensibili e sono dunque più capaci di captare cosa si muove nel mondo, sia pure in modo ancora embrionale. Non i partiti , magari anche per i loro pregi:troppo appesantiti dalle loro strutture, troppo obesi, e, di conseguenza, troppo radicati. Come i pachidermi, più grossi delle mosche, ma certo meno reattivi.

La prima ragione per celebrare anche noi anzianotti Genova 2001 è dunque questa: per ringraziare chi aveva promosso la prima grande mobilitazione contro gli ancora sconosciuti G8 e averci così aiutato a entrare nel nuovo mondo dalla parte giusta. Grazie. Se Genova è stata anche l’occasione di una mattanza tanto feroce da sbigottire non dovrebbe in realtà meravigliare: quella mobilitazione che per la prima volta metteva in mostra il nuovo nemico reale era davvero pericolosa per il sistema, aprì gli occhi ai tanti che non avevano ancora capito come era fatto il nemico più feroce. L’aggressione ai manifestanti non fu dunque solo frutto di una cattiva polizia, ma un’azione deliberatamente ispirata dal potere.

Per celebrare la memoria di Genova, oggi, credo sia importante prendere consapevolezza che stiamo ricordando la data di un passaggio epocale.

E tuttavia io con questa generazione di Genova qualche volta non mi ci ritrovo e qualcosa da ridire sugli eredi diretti dei no global ce l’ho. In questa circostanza vorrei dirla, a rischio di far pensare che vengo direttamente dal cimitero degli elefanti, dove dovrei stare zitta a riflettere sulle nostre tante colpe.

Non intendo, sia chiaro, chiamarli in causa perché il famoso «altro mondo possibile» sembra essere diventato nel frattempo addirittura impossibile tanto è brutto quello in cui stiamo vivendo: la sconfitta subìta non è la loro, è di tutta la sinistra, di noi vecchi per primi. E però qualche riflessione autocritica in più potrebbe esserci.

Io capisco, per esempio, il diffuso scetticismo per i partiti, perché la loro esperienza recente è stata così deludente (anche se qualche distinzione fra loro potrebbe/dovrebbe esse fatta ). E però guai se nella storia non ci fossero stati i partiti di sinistra, perché quella formula ha significato, in molti casi, sollecitare ogni persona a diventare protagonista, e cioè soggetto della storia e non solo vittima, soprattutto alternativo e non dissidente.

Per esserlo si deve esser capaci di costruire relazioni non formali, non solo nel momento della protesta, ma soprattutto in quello della costruzione di nuove e stabili forme di democrazia organizzata. Particolarmente urgenti oggi quando con ogni evidenza dobbiamo prendere atto che quella delegata, rappresentativa, anche quando arricchita come è in Italia da una Costituzione che è stata capace di stabilire contenuti in grado di rendere i principi attuabili, non funziona più. Ha potuto avere una funzione positiva importante quando è stata accompagnata da una formidabile partecipazione politica animata da cittadini che non si sentivano sudditi ma, per l’appunto, soggetti.

A renderlo possibile sono stati i partiti, ma può darsi che oggi non bastino o comunque che quella forma non sia più in grado di dare quel che ha dato e serva dunque inventare altre forme attraverso cui la collettività possa esprimersi e operare. Gramsci – e mi riferisco a lui, pur molto partitista, perché è quello che più è stato consapevole pur in un tempo diversissimo dal nostro attuale dei rischi di autoreferenzialismo di istituzioni statali e di partiti – ha con insistenza suggerito di creare anche Consigli, in quanto indispensabili momenti di democrazia diretta.

Potrebbe essere utile seguire la sua indicazione, potrebbero i movimenti, parte di loro, seguire questa strada per trovare, via via, la stabilità necessaria non solo a «chiedere» ma a «gestire» pezzi di società, casematte dove attestarsi nel lungo difficile percorso che ci attende?
Ecco, di questo vorrei si potesse discutere, senza asti e distinguo identitari. Le celebrazioni sono importantissime perché la memoria storica è preziosa, il futuro si costruisce bene solo se si studia l’archeologia. Ma servono se questo futuro lo si aggredisce, altrimenti si rischia di diventare – e qualche pericolo lo avverto – un gruppo di piagnucoloni.