Nel 2012 Leonard Cohen e Chuck Berry sono i primi due musicisti insigniti del Pen Songwriting Award, premio prestigioso consegnato per meriti letterari. In quell’occasione Cohen dirà che pezzi come Roll over Beethoven erano in grado di evocare il gioioso frastuono di Walt Whitman e che se Beethoven non si fosse rovesciato su se stesso e fatto da parte «per noi non ci sarebbe stato spazio». Arriverà anche un’email di Dylan che salutando Berry sentenzierà: «Per Chuck, lo Shakespeare del rock’n’roll, congratulazioni per il tuo Pen award, hai visto a cosa ti hanno portato tutti quei giochetti (too much monkey business dall’omonima canzone di Berry del ’56). La deferenza del mondo del rock nei confronti di Chuck Berry è sempre stata massima, con Bob Dylan, tanto per fare un esempio, che proprio da Too Much Monkey Business trarrà ispirazione per la resa vocale rutilante della sua Subterranean Homesick Blues. Dai Beatles ai Rolling Stones, dai Beach Boys ai Kinks, da Van Halen ai Sex Pistols ai Nirvana e così continuando a zigzagare per il rock nessuno è rimasto immune dal ciclone Chuck Berry.

Il critico Charlie Gillett sostiene che se la rilevanza di un artista nel mondo della musica popolare potesse essere misurata in termini di creatività, spirito, immaginazione, capacità di tradurre in suoni un’ampia varietà di esperienze e sensazioni, nell’influenza esercitata e reputazione acquisita, Chuck Berry non avrebbe rivali. Nel suo massimo periodo di consenso – dal debutto con Maybellene del 1955 a Back in the U.S.A del 1959 – altri artisti hanno maggiormente frequentato le classifiche e sono stati di gran lunga più imitati, ma nessuno come Berry ha lasciato un segno così marcato su chi gli si è accostato anche solo per un istante. Per questo John Lennon può dichiarare che se dovessimo cambiare nome al rock’n’roll potremmo chiamarlo Chuck Berry.
La sua capacità di trasformare l’effervescenza di stili preesistenti come boogie-woogie o jump blues, intercettare i cambiamenti tecnologici, sociali, economici e «umorali» del tempo ha consentito di elevare i suoni a un livello altro e contribuire a edificare quello che chiamiamo rock’n’roll. Chuck Berry è stato il primo a fare assoli, a scrivere e cantare in ambito rock le proprie canzoni, a coreografarle con una presenza scenica (passo dell’anatra, semi spaccate con chitarra innalzata, rasoterra, a mitragliatrice ecc.) che è divenuta il lessico fondante della musica pop/rock e il punto di partenza (consapevole o meno) di tanti futuri musicisti. Il suo classico Johnny B. Goode (1958) – rieseguito da chiunque – rappresenta la quintessenza del r’n’r ed è tra i primi brani rock a fare contemporaneamente due cose: raccontare una storia e presentare il suo assolo di chitarra più evoluto (ne aveva abbozzati già altri), quello che lo trasformerà anche nel primo «guitar hero». Permane quel caratteristico incipit di chitarra (scelta poco ortodossa, ieri come oggi), splendida e definitiva modificazione di precedenti assoli introduttivi presenti in altri brani dell’artista.

Quel pezzo è anche il primo, grande esempio di narrazione rock: mette in scena l’idea di speranza, mobilità sociale, salvezza, redenzione, immortalità che popoleranno una sfilza di brani da lì in poi. Disvela il senso del rock e delle possibilità che quell’universo offre, con Johnny B. Goode, il protagonista – descritto per opportunità e convenienza come un country boy (in realtà è un black boy come Berry) – che pur poverissimo (non come Berry) attraverso quella musica può farcela, può sognare e vivere il sogno americano. Bruce Springsteen, tanto per fare un esempio, è tutto lì dentro. E poi il linguaggio. Berry è colto, proviene dalla borghesia afroamericana, ha studiato alla Sumner High School, prestigioso istituto solo per neri, il primo a ovest del Mississippi. Nei suoi testi la scelta dei termini è accuratissima, sempre in bilico tra linguaggio formale e colloquiale («botheration» anziché «bother» per seccatura; «motorvating» anziché «driving» per guidare ecc.), capace di parlare alla testa e al cuore dei ragazzini, bianchi e neri che lo ascoltano. Inoltre quando esce Johnny B. Goode (1958) Berry ha già 32 anni, non certo il modello ideale di teenager (termine inventato con l’avvento del rock’n’roll e soggetto di riferimento del genere), piuttosto un fratello maggiore – Elvis ne ha 19 quando debutta con That’s All Right; Berry è dunque un adulto, sa esattamente quello che sta facendo, sa a chi sta parlando e sa come rivendicare nelle canzoni la paternità di un genere – pensato e fatto perlopiù da adolescenti per adolescenti – che ha contribuito a edificare.
Ecco allora che in Rock and Roll Music, un altro suo classico del 1957, chiarisce: «Fatemi sentire quella musica rock’n’roll, ha un tempo che non riesci a perdere, se vuoi ballare con me deve essere rock’n’roll, non ho niente contro il jazz moderno a meno che non lo suonino molto più veloce e non cambino la bellezza della melodia». Dice: «ballare con me», e non è un caso. E soprattutto quella musica la chiama per nome: è sua. Perché è vero che la parola «rock» campeggia in pezzi di Bill Haley o dello stesso Elvis ma mai in una canzone un genere si è autorappresentato in maniera così esplicita.

L’anno prima è addirittura didascalico. Nel pezzo Roll over Beethoven menziona blues, rhythm and blues e il violino del country, tutti ingredienti fondamentali del nuovo genere musicale; tralascia il pop (Sinatra ecc.) tipico della borghesia adulta urbana ma in compenso tira dentro Beethoven e Ciaikovski, altre pedine fondamentali di quel mondo middle class bianco che adesso dovrà vedersela con questa nuova musica. Parla anche di «blue suede shoes», omaggiando l’omonima canzone dell’amico Carl Perkins, menziona il ruolo del dj radiofonico senza il quale questa musica non si può diffondere, i balli scatenati che ti fanno venire la polmonite rock (rocking pneumonia) ecc.

Anche per queste descrizioni puntuali e immaginifiche Chuck Berry è il vero padre del rock’n’roll, colui che su disco ne tramanda il senso, le parole, gli idiomi, lo storiografo che racconta la storia mentre la scrive. Dirà in un’intervista: «Ho fatto dischi per persone che se li sarebbero comprati, nessun colore, provenienza etnica, ambito politico, non mi interessava». Gli stessi ragazzi a cui si rivolge sanno dunque cosa aspettarsi, e le osservazioni di un fratello maggiore possono sempre tornare utili; come in School Days, altro suo classico, efficace ritratto di un giorno a scuola. Da notare che quando il pezzo esce, nel 1957, i tempi delle medie e delle superiori sono per il rocker ormai ben lontani: risale infatti al ’44 quel liceo alla Sumner High School che Berry non terminerà perché arrestato per rapina a mano armata e inviato in riformatorio fino al 1947.

In un suo saggio sul rock’n’roll Alessandro Portelli descrive lo shock culturale che provò ascoltando A Hard Day’s Night (1964) dei Beatles: per la prima volta in una canzone sentiva parlare di lavoro («…And I’ve been working like a dog», ho lavorato come un cane), cosa inaudita per quel mondo del primo rock’n’roll in cui tutto è congelato in un’eterna, incantata adolescenza e dove il lavoro, il tempo degli adulti, non ha spazio. In realtà il protagonista di un altro pezzo di Berry, Come on (con la cover di quel brano i Rolling Stones debutteranno nel ’63), è stato appena licenziato.

Ma siamo già nel 1961 e nel rock’n’roll degli anni Cinquanta l’economia piomba dentro la nuova musica del tempo solo come riflesso/residuo delle sue infuenze blues e country – generi che per antonomasia abbracciano tutti gli aspetti dell’esistenza; non sorprende allora che si parli di soldi quasi sempre nel repertorio dei musicisti neri, in Rip It up di Little Richard («è sabato sera, ho appena preso la paga e mi voglio scatenare») oppure in Telling Lies di Fats Domino dove «mi hai detto che volevi che fossi il tuo innamorato ma ti interessavano solo i miei soldi»; altrove – riflette Portelli – se il denaro c’è viene nominato solo per essere negato in contrapposizione all’amore: non mi interessano oro e soldi ma solo il tuo amore, tanto per citare Neil Sedaka in All I Need Is You. Scomparso il lavoro dovrebbe essere allora lo studio, i compiti in classe o a casa (homework), ad albergare nei pezzi, ma non è così.

I compiti servono ai protagonisti come metafora del proprio stato d’animo: mi sbrigo a farli perché voglio vederti prima possibile. In una vecchia intervista Chuck Berry dichiara che lui, Jerry Lee Lewis, Fats Domino, Little Richard, Bo Diddley, Clyde McPhatter (Elvis non viene menzionato, magari rientra negli eccetera con cui chiude la frase) furono solo pedine di uno specifico spirito del tempo, di quegli anni magici che hanno consentito al rock’n’roll di svilupparsi. Ma precisa: «Quello che mi distingue è che io ho rigorosamente (strictly) registrato le mie canzoni affinché rappresentassero l’identità del teenager, la sua vita; e non si parlava troppo d’amore, quello con cui avevano a che fare era la scuola». Dichiarazione tanto più rilevante se si pensa che Chuck Berry è l’unico rocker anni Cinquanta a deromanticizzare il tempo della scuola altrimenti spesso inteso nei pezzi come lo spazio in cui struggersi d’amore (altro che libri), corteggiare, partecipare ai balli scolastici, regalare anellini ecc.

Berry irrompe in questa adolescenza scolastica artificiale e idealizzata e proprio in School Days la dice com’è, la vita in classe è noiosa, lo è sempre stata. Perché: sveglia la mattina, studio feroce per superare l’interrogazione, mangiarsi le unghie fino all’osso, stare attenti a quello seduto dietro che rompe di continuo, poi la mensa dove sei fortunato se trovi un posto per sederti, poi di nuovo in classe, ancora i libri aperti, la professoressa insopportabile, poi arrivano le tre, si arriva nel locale dove senti qualcosa che ti piace tantissimo. E alla fine: ave, ave rock’n’roll che ci liberi da tutto ciò che c’è di vecchio. Ossia «hail, hail rock’n’roll, deliver me from the days of old» che è poi anche il titolo di uno splendido documentario dell’87 per celebrare i 60 anni del rocker. E se «hail» rimanda direttamente a Hail Mary, all’Ave Maria, «deliver me», liberami, è un implicito riferimento a un’altra preghiera, il Padre Nostro.

Chuck Berry ha frequentato la chiesa, e da lì viene – per lui come per tanti altri rocker – un’ulteriore, imprenscindibile fonte di ispirazione. Ha cantato nel coro della Antioch Baptist Church di St. Louis, conosce la Bibbia e il fervore delle liturgie evangeliche e pentecostali da cui è scaturito il rock’n’roll. Per questo può intitolare una sua canzone The Promised Land e non certo sta pensando alla terra di Canaan ma alla California; per questo i suoi spiritual secolarizzati prevedono una chitarra al posto di un’arpa benedetta e una Cadillac al posto dello sweet chariot, il carro di fuoco del profeta Elia. Inoltre è proprio con Chuck Berry che l’auto diventa uno dei luoghi ricorrenti del rock, simbolo di orgoglio e libertà. Guidare lungo un’autostrada, con nessun posto in particolare dove andare (No Particular Place to Go, come recita il titolo del suo singolo del ’64) arreca sollievo ed evoca la fuga. E soprattutto consente la «deliverance», una liberazione che passa attraverso il rock’n’roll e non certo attraverso il Signore.

Questo senso di trascendenza rock e «automotiva» diverrà anche un classico di Bruce Springsteen che dal palco intratterrà sovente il pubblico con la storiella dell’undicesimo comandamento mai trascritto, quello che dice: «let it rock!!!», altro fondamentale rimando a Berry che proprio in quel modo intitolerà un singolo del 1960. Insomma tutto comincia con lui, il primo ad aver dato a un genere musicale un suono, una consuetudine linguistica e tematica, ad aver trasposto la tensione verso un’entità ultraterrena (con tutte le liturgie e i simboli del caso) in un’ambito secolare e quotidiano, in noi stessi e grazie alla musica più mondana, sensuale, sfrontata e più sacra di tutte. De resto ci sarà pure una ragione se Johnny B. Goode è l’unico pezzo rock presente nel Voyager Golden Record, il disco in orbita dal ’77 con il Programma Voyager (1977). Come dire: «ritorno al futuro», e per sempre.