Premiata quest’estate con il Leone d’oro alla Biennale veneziana, a suggello di un’attività artistica più che trentennale che l’ha imposta ai vertici del teatro di danza contemporaneo, Anne Teresa De Keersmaeker torna a Roma con due pezzi recenti tanto diversi fra loro da sembrare esercizi di stile. Diversi anche dai lavori con cui tanti anni fa avevamo conosciuto la coreografa fiamminga e le sue compagne Rosas che danzavano Rosas, cioè se stesse, con sfacciata energia femminile e l’inesausta capacità di tirar fuori un forte contenuto emozionale da gesti apparentemente minimalisti e ripetitivi. Immutata è rimasta invece l’attenzione con cui Anne Teresa guarda alla musica come fonte di ispirazione, quella novecentesca soprattutto. E tornano in mente naturalmente i quattro movimenti sulla musica di Steve Reich del bellissimo Fase, danzato insieme a Michèle Anne De Mey, che l’aveva rivelata a vent’anni, era il 1982, lasciata ormai alle spalle la scuola Mudra di Béjart. O quelli del quartetto di Bartók su cui era costruita la struttura circolare del Bartók/Aantekeningen. E ancora, le musiche di Berg e Schönberg per Woud, il jazz di Coltrane e Miles Davis…

Qui, nei due spettacoli proposti da Romaeuropa, i numi musicali sono Arnold Schönberg e Gérard Grisey, due compositori che si collocano forse non per caso all’inizio e alla fine del secolo passato. Un brano che è ancora erede del patrimonio romantico ottocentesco, «spudoratamente romantico» lo definisce anzi De Keersmaeker; l’altro che ha assorbito tutte le sperimentazioni della musica contemporanea. Vortex temporum è un brano di una ventina d’anni fa del compositore francese scomparso nel 1996, a poca distanza proprio da questa sua composizione. All’origine c’è una «piccola frase» tratta da un brano di Ravel che Grisey dilata in un continuo gioco di espansioni e contrazioni. Ci sono da principio solo i musicisti dell’ensemble Ictus, seduti a semicerchio al centro del palcoscenico del teatro Argentina lasciato alla sua nudità di ferro e cemento. Fiati e archi, alle loro spalle un pianoforte che più avanti vedremo condotto in un lento moto circolare, risucchiato esso pure nel vortice promesso dal titolo. L’unico elemento scenografico è dato in realtà dai pannelli di tubi al neon che formano una sorta di tetto luminoso al di sopra del palco e con il loro chiarore freddo ne accentuano l’aspetto da officina – ma soprattutto con le variazioni di luce introducono nel pezzo danzato l’altra polarità del titolo, il tempo.

I danzatori entrano quando escono i musicisti, e sembrano anzi andarsi a collocare nelle posizioni che prima occupavano quelli. Anche i gesti che compiono, nel ritrovato silenzio della scena, sembrano richiamare quelli di chi li ha preceduti, fino a sostituirsi a loro come già sperimentato dalla coreografa in A love supreme, dove i quattro interpreti si identificavano con il quartetto di Coltrane. Sono torsioni del corpo, slanci delle braccia che progressivamente evolvono in movimenti più complessi, a terra e per aria, assecondando la circolarità che da sempre impronta il codice gestuale della coreografa. Quando tornano i musicisti e le due partiture si congiungono, il movimento vorticoso accelera, diventa corale, per poi spegnersi insieme al calare dell’oscurità, e riprendere nuovamente fiato in un accresciuto disordine. Ombre trascinate in un naufragare ipnotico, intorno all’occhio di un ciclone esistenziale che non sembra aver termine con la fine dello spettacolo.

Tutt’altro clima culturale e emotivo in Verklärte Nacht di Arnold Schönberg. Due soli interpreti in scena, a parte la breve apparizione di un terzo danzatore in un silenzioso prologo in due tempi. Il pezzo ha anche un esile contenuto narrativo, ispirato a un componimento poetico, che contribuisce per la sua parte al suo aspetto romantico. Una giovane donna attende un figlio da un occasionale rapporto e deve ora confessare al fidanzato il suo peccato. E in questa «notte trasfigurata» l’uomo accetterà di diventare il padre del bambino. Ma è lei in effetti a condurre il gioco scenico, i corpi si sa non mentono. E il vestitino leggero che facilmente si solleva sembra scelto a posta per imporre la sua sensualità di fronte al borghese grigiore di lui. Gli gira intorno, si butta a terra, gli salta fra le braccia, se ne distacca, mentre lui pare soprattutto intento a imparare i movimenti di lei. Di continuo si tira su il vestito sui fianchi e abbassa lo sguardo fra le gambe, con l’ostinazione compulsiva con cui le interpreti di Rosas danst Rosas si scoprivano una spalla. Finiscono sdraiati l’uno accanto all’altra, finisce che lui resta da solo, forse non del tutto convinto di tanta trasfigurazione. La spavalda cattiva ragazza di un tempo si confessa romantica, ma forse con una punta di nostalgia per quella giovinezza sfrontata.