Edie bambina piange e sua madre la zittisce con del cibo. Poiché «il cibo era fatto d’amore, e l’amore era fatto di cibo, e se riusciva a fare smettere di piangere un bambino, allora non c’era niente di sbagliato». Ai nostri giorni, più che mangiare del cibo si è da essi letteralmente divorati. Pensandoci bene, è una condizione inusuale per l’umanità poiché, storicamente, le stagioni delle civiltà trascorse sono state scandite soprattutto dalle crisi di penuria nell’alimentazione di base. Non è certo questa la condizione dei Middlestein, una famiglia della classe media («middle» e «stein», la pietra) americana, di estrazione urbana, residente a Chicago, inserita nei flussi abituali della vita di una metropoli dei tempi nostri. Ebrei solidamente impiantati negli States, secolarizzati ma comunque abituati al rispetto delle ritualità religiose, vissute come passioni civili. Non a caso, il fuoco degli eventi sta nei preparativi per la festa della maggiorità dei due nipoti gemelli, Emily e Robin. Più che spirito di festività, tuttavia, l’intera parabola esistenziale raccontata nel romanzo I Middlestein (Giuntina, 2014) dall’autrice, Jami Attenberg, in realtà è quella di una disfunzionalità ossessiva e maniacale, quand’anche essa assuma le false sembianze di una condizione condivisibile. Finché il gioco regge, per inteso.

RICHARD ED EDIE, oramai sessantenni, da quasi quarant’anni condividono il ménage coniugale tra quegli inevitabili alti e bassi di un lungo rapporto di reciprocità. Lui è un farmacista, lei un’avvocata di talento. Se la passano bene, almeno all’apparenza. Qualcosa, però, a un certo punto si interrompe. La separazione tra i due, infatti, subentrerà come una sorta di inevitabile esito, a volere infrangere, come fosse un debole cristallo, il ciclo di prevedibilità e accomodamenti, molto spesso di acquiescenti complicità, sui quali il più delle volte il gioco di coppia si svolge e si ricompone. La traiettoria esistenziale di un gruppo di famiglia nel suo interno è scandita dalla dilatazione della protagonista, ovvero dall’aumento di peso che accompagna, con inesorabile progressività, la sua esistenza, fino a condurla sull’orlo di una sorta di esplosione, di cui la disgregazione della famiglia è una sorta di suggello sia materiale che simbolico.

UN BISOGNO, quello di mangiare, che peraltro si fa istinto quasi primordiale, insopprimibile, sottilmente cannibalesco. I genitori di Edie Herzen, questo il suo cognome da nubile, provengono dall’Europa dell’Est. Sono tra quei tanti migranti che nella prima metà del Novecento si spinsero verso le Americhe alla ricerca di un’esistenza sostenibile. Con loro portavano l’ossessiva memoria della privazione, della precarietà, dell’assenza dei beni primari. Il loro codice affettivo è quindi elementare. «Erano d’accordo sul fatto che il cibo era frutto d’amore ed era ciò che generava amore». E di questa cognizione, onnipresente, investono la figlia, che invece, nel mentre cresce d’età nel paese dell’abbondanza, si dilata a dismisura, rivelando i tratti crescenti della dipendenza clinica. Più che una storia di emancipazione, sfogliamo pagine di servitù, quella che la sovranità del grasso debordante impone, passo dopo passo, ai suoi serventi. Jami Attenberg mette in scena il rapporto tra rispettabilità e patologia in un contesto di apparente normalità. La difesa dei ritualismi della quotidianità è infatti destinata a essere soverchiata dall’esondazione di vizi più o meno privati. Se lo spartito letterario è suddiviso in passaggi progressivi, dove a ogni atto viene introdotta la soggettività di uno dei personaggi coprotagonisti, il tratto comune, che accompagna la lunga dimensione temporale del romanzo, dagli iniziali trenta chili di Edie fino alla sua obesità conclamata, una massa di carne ingombrante e tracotante, è la dipendenza che attanaglia tutte le figure in scena.

I MIDDLESTEIN, nel loro essere mediani, letteralmente rispettabili «soggetti di mezzo», ossia al centro di un qualche equilibrio non meglio identificato nella sua natura sociale e fattura culturale, sono tutti vittime di un’ossessione estrema, che colonizza il campo dei loro pensieri. Dai capelli che cadono con il trascorrere del tempo al perfezionismo maniacale e onanistico nelle relazioni professionali e sociali, dall’alcol più o meno furtivamente consumato alla fragilità emotiva, si dipana un catalogo di affanni contemporanei che l’autrice pennella con la sapiente leggerezza di chi deve dare conto di quei drammi quotidiani che non hanno la nobile grandezza delle tragedie estreme ma che intossicano inesorabilmente le relazioni interpersonali. Il cibo che non appaga ma che dilaga, attraverso il corpo che si allarga, è il filo conduttore del testo. Edie, vigorosa e determinata nella vita di ogni giorno, in realtà è affetta da una consapevole bulimia che la bullizza tanto quanto vittimizza coloro che le stanno intorno. Il cibo, che è disseminato un po’ per tutte le pagine del romanzo, non ha sapore né gusto. Scivola tra le righe, quasi a volere cadere addosso al lettore, così come fa l’olio che scivola incautamente dalla padella. È come un mastice che tiene unite esistenze diverse, salvo poi rivelarsi privo di forza nel momento in cui gli equilibri si frantumano.

NON È QUINDI una cucina felice, domestica, allegra, gioviale, intorno alla quale fare ruotare i componenti di una famiglia, quella che ci viene raccontata. La Edie che a cinque anni è già un concentrato di carne, solida e piena, con l’ipernutrimento coatto che pratica su di sé esprime la mancanza di quella gioia di vivere che l’accompagna da quando era ancora una giovane studentessa, già allora incapace di accettare la malattia del padre. Quel cibo diverrà poi il riempitivo destinato, in prospettiva, a uccidere la oramai non più giovane signora Middlestein, moglie, madre, professionista affermata che, tuttavia, crede di avere perso se stessa e il proprio ruolo nel mondo, incapace di riconoscere in esso residui segnali di luce. I Middlestein non sono i protagonisti di un romanzo sulla bulimia o sulla sindrome metabolica: il cibo, infatti, è solo una metafora per raccontare l’esistenza, attraverso il linguaggio delle ossessioni e dei conflitti irrisolti che condizionano la vita e le relazioni, fino alle estreme conseguenze. Intorno alla figura principale ruotano, nella loro perduta umanità, gli altri componenti della famiglia. Dai due figli, Benny e Robin, il primo sposato con Rachelle, una salutista ossessiva, che centellina le calorie e che vorrebbe salvare la suocera, la seconda figura acuta e spigolosa, sospesa nella sua rabbiosità, che non perdona al padre la scelta del divorzio, ma al medesimo tempo non riesce a mantenere una stabile relazione sentimentale. Il cibo è il carburante di una sedazione e di una deprivazione. Sedazione del senso di inconsistenza delle relazioni abituali, vissute come prive di prospettiva; deprivazione dell’orizzonte, compresso su un appetito insaziabile e autodistruttivo. La corpulenta, gigantesca e diabetica Edie ingurgita con insolente costanza quantità di cibo ributtante, insalubre, solleticando la ripugnanza di coloro che assistono impotenti ai suoi riti alimentari quotidiani. Lo fa con una solipsistica indifferenza nei confronti di chi le sta attorno, di quanti cioè vorrebbero porre un argine a questa esondazione, che si riversa poi su di loro come un fiume che ha rotto gli argini. Il marito ne è vittima, cogliendo nel desiderio spasmodico della moglie il suo egotismo inscalfibile.

DINANZI alla sua inappagata bramosia sceglierà quindi di abbandonarla, nonostante i molti anni di convivenza, alla ricerca di un’isola che non c’è, quella della riscrittura di una parte della sua esistenza, a partire dalla dimensione sentimentale. La separazione tra i coniugi manda in frantumi il tempietto famigliare, la camera di compensazione di cui il cibo non amoroso era comunque un temporaneo collante, aprendo fessure dalle quali fuoriescono emozioni e risentimenti, paure, sensi di colpa e d’impotenza. Ma il cibo inchioda tutti, non permette di assumere quella lievità che i personaggi vorrebbero altrimenti rivestire per potere volteggiare chagallianamente su un presente nel quale non si riconoscono. Il cedimento della moglie cardiopatica cronica induce infine l’ex marito a chiedersi le ragioni di questo declino già scritto. «Richard credette, alla fine, di aver avuto un bagliore di comprensione del perché Edie aveva mangiato fino a morirne. Perché il cibo era un luogo meraviglioso per nascondersi».

LA FORZA di Jami Attenberg è di coniugare tre archetipi della nostra contemporaneità, ossia l’individualismo, la famiglia e l’ossessione per il «food», ragionando sul ricorso al cibo come a un vuoto linguaggio dei segni in assenza di reali significati da condividere. La storia di Edie, quindi, non è solo quella di una bulimica impenitente, che si cancella sotto una montagna di calorie, ma di una società che, cercando la medietà del quotidiano, riesce a trovare esclusivamente la radicalità di un disagio senza altra voce che lo esprima che non sia quella della bocca che si apre per divorarsi autofagicamente.

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Le tavole della letteratura sono sempre state imbandite. A volte, il cibo stesso, un ingrediente, una ricetta, una tradizione conviviale sono stati i motori della narrazione. Si sono trasformati in personaggi, assumendo su di loro temi simbolici, rappresentando la vita, la morte, il destino, le emozioni. Fino a fine agosto, pubblicheremo una serie di pagine dedicate a romanzi con qualcosa da mangiare. Il logo delle nostre «Cucine letterarie» è «Kitchen range» di Roy Lichtenstein, un’opera del 1962.