Il cielo è tornato azzurro dopo la tempesta che ha spazzato afa, nubi, e pure un po’ l’estate. Sul Lido siamo rimasti in pochi come testimoniano le sedie vuote in sala dopo i pieni degli inizi, ci sono sempre i «check point» della sicurezza che blindano la zona del Palazzo del cinema ma ormai la Mostra numero 74 è finita. Stasera si annunceranno i Leoni, cosa deciderà la giuria guidata dall’attrice Annette Bening è abbastanza difficile a dirsi, c’è un «pacchetto» di probabili candidati che circola da qualche giorno in cui troviamo Three Billboards Outside Ebbinng, la commedia nera di Martin MacDonagh, con una sublime Frances McDonald che potrebbe conquistare la Coppa Volpi per la migliore attrice, The Shape of Water, la realtà acquatica di Guillermo Del Toro (e Sally Hawkins è un altro nome possibile per la migliore interpretazione femminile), poi c’è l’Italia che con la presenza massiccia in cartellone qualcosa dovrà avere – le voci ipotizzano la Volpi per Donald Sutherland nel film di Virzì, Ella&John – ma niente può essere certezza.

Ieri si è chiuso il concorso con l’ultimo dei quattro titoli italiani selezionati (e senza dubbio il migliore), Hannah di Andrea Pallaoro, protagonista assoluta Charlotte Rampling che è – a quanto pare – andata a aggiungersi all’elenco dei possibili premiati. Pallaoro, che è una «scoperta» della Mostra dove ha presentato, nella sezione Orizzonti, il suo sorprendente film d’esordio, Medeas, è italiano ma ha studiato in America, dove vive tra a Los Angeles e New York, e fa parte di quei registi italiani – come Jonas Carpignano il regista di ‘A Ciambra, questi giorni in sala – cresciuti lontano dai «diktat» che regolamentano l’immaginario in Italia. La differenza c’è, ed è molto evidente, lo avevamo già visto nel suo primo film, a cui questo è legato nel progetto ideale di una trilogia femminile – il terzo capitolo è in preparazione, col titolo di Monica – ce lo riconferma qui. Non si tratta solo di paesaggi – periferie napoletane o romane a parte – è soprattutto una questione di sensibilità rispetto alle immagini, al rapporto con la scrittura in una ricerca che mette al centro la messinscena in antitesi alla tendenza (nostrana ma non solo) di sottometterla alla sceneggiatura.

Hannah è la protagonista – Charlotte Rampling, recitazione silenziosa con ogni nervo e muscolo – una donna di cui sappiamo poco, dai gesti che ce la raccontano nelle prime sequenze cogliamo una vita fatta di piccole abitudini quotidiane: il lavoro di governante nella casa di una ricca signora il cui figlio piccolo è non vedente, i corsi di teatro terapeutico, una specie di autoanalisi di gruppo dove i partecipanti provano a liberare, attraverso i testi letti, le emozioni trattenute, la casa, la cena consumata senza troppe parole insieme al marito, anche lui anziano, il cane adorato, la buonanotte di una consuetudine insieme.

Però subito dopo accade qualcosa, il marito finisce in prigione, non sappiamo perché, e Hannah all’improvviso si ritrova da sola. Che cosa ha fatto di così terribile l’uomo da rendere anche la vita della moglie una sorta di carcere di massima sicurezza della solitudine? Messa al bando dalla collettività, osservata con astio da pochi vicini di quel condominio anonimo come può essere in qualsiasi periferia d’Europa, estranea nella sua stessa casa di cui non riconosce più gli spazi, rifiutata dal figlio, la donna sembra disperatamente attaccarsi alle sue abitudini, unico appiglio alla precarietà emotiva e esistenziale che rischia di sopraffarla.

E questo segreto, il fuoricampo degli eventi, o della realtà, prende forma nella sua sofferenza. Capiamo quasi subito, anche se non viene mai specificato, che l’accusa nei confronti dell’uomo è di pedofilia,ha fatto qualcosa ai bambini degli altri, come una voce anonima di madre urla nella testa di Hannah, o ai propri figli. Non lo sappiamo, Pallaoro lascia a noi la decisione, quasi chiedendoci come al personaggio di assumere un punto di vista che non deve essere per forza empatico.

La sua sfida, che comincia dalla scelta di girare in 35 millimetri, è raccontare con la regia, e per questo si affida all’attrice, Rampling, che lo asseconda in piena complicità: è il suo corpo, messo a nudo, il terreno di una battaglia esistenziale, dello scontro tra la rimozione e l’evidenza,tra il rifiuto della responsabilità e il peso insopportabile della sua assunzione.

Ne seguiamo le incertezze, le fantasie, le paure, i brevi istanti di sollievo. Scrutiamo dentro a qualcosa che fa paura anche solo intravedere, perché le «vittime», o presunte tali, del marito non le vediamo mai, rimangono invisibili, presenze disegnate dall’esterno, dal rifiuto che circonda Hannah marchiata quasi come un’appestata. Il movimento narrativo sono i suoi passi che disegnano un mondo esterno impalpabile e lontano, un rimosso che la schiaccia pesante come la balena spiaggiata davanti ai suoi occhi.

Non ci sono però «trucchi» emotivi, la tensione è nello scollamento tra la donna e ciò che la circonda, è geometria di spazi, tempo, senza giustificazioni in quello che appare, anche quando imperfetto, un vero progetto di cinema.