In una pagina del romanzo Manuale di pittura e calligrafia, José Saramago si soffermava sulla sala di Valeriano Trubbiani (Macerata 2 dicembre 1937 – Ancona, 29 agosto 2020) alla Biennale di Venezia del 1972. Per la prima volta questi presentava Stato d’assedio, una foresta di picche con mani minacciose che agguantano per il collo dei volatili.

Lo scrittore portoghese, però, si era soffermato su Quo Vadis? del 1972: un ibis incatenato a un tavolo da tortura, minacciato da una mano che brandisce un retino da caccia. L’atto cruento – fra pistole e seghe rotanti – è latente, raggelato prima che si compia, e allude a una minaccia che incombe non solo sull’animale ma, per metafora, sulla condizione umana. Sono quelli che Giuseppe Marchiori, fra i suoi numi tutelari, definirà i «grandi supplizi del pistolero Trubbiani». Fin da subito, infatti, è evidente che la scultura, per l’artista maceratese (ma anconetano d’adozione), era un modo di dare concretezza d’immagine a una narrazione o, meglio, a un’invenzione verbale, talvolta presa alla lettera o colta nel suo lato ironico e grottesco.

A «VOLTERRA 73», invitato da Enrico Crispolti, egli avrebbe ad esempio calato dalla Torre del Porcellino una ridda di stampi da caccia fusi in metallo, appesi come precipitassero addosso al visitatore: erano Le morte stagioni raccontate da una formidabile serie di fotografie da Enrico Cattaneo. Una linea leopardiana accompagnava sottotraccia il suo lavoro: a Volterra la citazione è esplicita, ma anche Stato d’Assedio, in una versione successiva, si intitolerà All’Italia in ricordo del poeta di Recanati; in Ractus-Ractus, installazione ambientale di topi da pifferaio di Hamelin, aveva ripreso a distanza i Paralipomeni della batracomiomachia. Non a caso, nel 2012 l’ultima sua grande retrospettiva, organizzata dal fedele Crispolti a coronamento di cinquant’anni di amicizia (dopo la grande monografia del 1995 e la mostra di Macerata a quattro mani con Pierre Restany nel 1997) aveva trasformato la Mole Vanvitelliana di Ancona in una «laica rappresentazione» all’insegna di un personale De rerum fabula.

EREDE dei meccanismi surrealisti, Trubbiani ha messo in scena un mondo eccentrico e visionario, psicologicamente teso, di memoria rurale e medievale, da cui emergono paure inconsce e incubi moderni, quasi fantascientifici. Nodale, come sottolineava Crispolti, il mestiere appreso nell’officina paterna di fabbro ferraio, dove aveva imparato non solo la cura nella lavorazione dei metalli, ma anche i segreti della cromatura e zincatura.

È PROPRIO QUESTA ABILITÀ artigiana ad acuire l’inquietudine del mondo di Trubbiani: un’incandescente fantasia associativa unita a una precisione quasi grafica nel delineare forme e profili, nel cesellare fusioni e saldature, sì da rendere lucida e inequivocabile la sua drammatica allucinazione. Marchiori era rimasto colpito proprio dalla sua capacità, degna del miglior ready-made, di cogliere il lato estetico degli oggetti più umili e a ricavarne immagini nuove per via di accumulo e di assemblaggio: i becchi degli aratri di campagna diventavano, nelle mani dell’artista, sonde o ghigliottine, strumenti di attacco e, soprattutto, di difesa.

Fra Aruspici e Macchine belliche, fra animali incatenati e supplizi bianchi, la sua scultura metteva in guardia dal pericolo, dava vita a un mondo incantato e crudele, ma concretamente presente, che lo rese congeniale a Federico Fellini, che volle la sua collaborazione per le scenografie di E la nave va: due mondi di eccitata immaginazione si erano incontrati sulla soglia dell’invenzione onirica.