Maria traffica coi corpi altrui, il business del contemporaneo, ragazze dell’est e africane che si prostituiscono lungo la Domiziana. Quando rimangono incinte il bimbo si vende a «brave persone» che aspettano da secoli in lista di attesa di coronare il sogno familiare.
I figli sono delle madri che li vogliono non solo di chi li fa ripete Maria (Pina Turco) alle ragazze, del resto in quel pezzo di mondo vestito di lucine e di degrado, dove i maschi sono stupratori o puttanieri e le donne decidono e comandano solo in apparenza, la vita sembra contare meno di niente e la speranza è diventata un vizio.

LO DICE sin dal titolo del suo nuovo film Edoardo De Angelis, Il vizio della speranza appunto in cui il regista di Indivisibili mette al centro lo stesso paesaggio del film precedente, e ancora di più le figure femminili. Quando la protagonista scopre di essere incinta pure lei la gravidanza e il bambino per cui lotta diventano qualcos’altro. Non tanto fede che sembra impossibile tra i crocifissi spaccati e la chiesa corrotta, forse rivolta, o una via di resistenza, l’inizio di un mondo nuovo come vuole il suo nome, Maria, e quel figlio arrivato chissà da dove e senza un padre.

DE ANGELIS non ha però l’occhio e l’ispirazione per filmare l’invisibile, quella «spiritualità» che è una delle immagini più difficili da restituire. Cosa ci dice il suo mondo chiuso lungo l’acqua, di neon e disperazione? Nulla di più di una cartolina, se è tutto «vero» poco importa, perché ormai è diventato un decor obbligato e rassicurante. Miseria funzionale alla storia, alla riconoscibilità, alle attese. Tutto il resto non è nemmeno fuoricampo, in campo non ci entra affatto. Quel personaggio di ragazza che cambia all’improvviso, una dura con qualche tenerezza è tutta lì, non ha bisogno di nulla, basta il fatto che a un certo punto sia Maria con la sua natività. Ma basta davvero? I detour di quello che dovrebbe essere un viaggio esistenziale si spengono nella programmaticità, la stessa di quel paesaggio senza apocalisse se non quella imposta dalla sceneggiatura, privo di contrasti, di confronto, di interiorità.
Che si sappia tutto non è importante, che lo si sappia rendere cinema – e racconto emozionale – invece sì.