Post-cyborg, post-moderna, post-tutto. Myss Keta, connessa dalla Torre Galfa di Milano, ha da poco presentato il suo Il cielo non è un limite, EP composto da sette brani che uscirà il prossimo venerdì. Performer situazionista, rapper dall’attitudine punk e diva pop, l’icona «mascherata» della scena milanese esordisce così: «Abbiamo trascorso lunghi mesi di lockdown guardando il cielo dalle finestre. Come se fossero quadri. Da qui ho sentito il bisogno di fare quasi un concept album sull’aria. Quelle finestre non solo erano l’unico modo per osservare l’esterno ma, nel mio caso, si sono spalancate sulla mia interiorità». Cielo, nuvole, aria, come la copertina futuribile dell’EP che la ritrae in «forma» jet dalla splendente cromatura.

E DI FUTURIBILE, nell’album, non c’è soltanto l’immaginario ma, in primis, il sound: «Io e il mio team è come se avessimo voluto riprodurre i suoni metallici di tutti i videogiochi della Playstation di metà anni 90. Come Whipeout 2097. Ho cercato delle sonorità sperimentali e istintive allo stesso tempo. Esplorando generi come la jungle, la deep house e la cultura del clubbing». Sul tappeto metallico, che spesso filtra con la tracklist delle ormai iconiche compilation Hit Mania Dance di fine anni 90, Myss Keta ha di nuovo scelto una vocalità estrema, molto recitata e assolutamente performativa. Senza dimenticare la sensualità, raggiungendo, per citare il titolo di un’opera fondamentale del filosofo Mario Perniola, il sex appeal dell’inorganico: «Ho voluto un doppelgänger per ogni canzone. Nel primo singolo Giovanna Hardcore ho voluto trasformarmi in una guerriera di questo Medioevo digitale, come ha scritto James Bridle nel saggio Nuova Era Oscura. In Rider Bitch invece m’incarno in una rider di food delivery, una categoria tragicamente schiacciata dal nuovo feudalesimo. Mentre in Diana, dove duetto con Priestess, ho voluto impersonare una dea della caccia contemporanea immersa in una Magna Grecia futurista fatta di alberi alieni, boschi blu e fate». Quasi una sorta di contrappunto musicale della poetica letteraria di James Ballard – non a caso il romanzo Crash viene citato come una delle reference principali –, per la cantante, l’EP è anche un modo per riflettere sulla sua immagine, l’inseparabile mascherina, così rivoluzionaria agli esordi nel 2013 e oggi quasi familiare, causa pandemia.

«PER ME LA MASCHERA è sempre stata un modo per svelare l’interiorità. Può sembrare paradossale in questo mondo sovraeccitato, saturo, in questa entropia totale che osservo ma per me è sinonimo di libertà. Anche perché, dietro a una maschera, se ne possono nascondere altre mille. Confesso che oggi è un po’ straniante uscire di casa e vedere tutti con le mascherine ma la cosa mi rende felice e non per motivi auto-referenziali. A marzo la mascherina chirurgica era vista quasi come un elemento di disturbo, oggi ci rassicura ed è diventato un simbolo di protezione della comunità».