Non sono ancora chiare le cause dell’incendio che ieri ha mandato in fumo 250mila litri di carburante in un deposito a Zahrani, una 50ina di km a sud della capitale. Il capo della struttura che stocca carburante per conto dello Stato, Ziad el-Zein, ha dichiarato che non ci sono stati danni alle persone e ha insistito a dire che nonostante la crisi la manutenzione era stata regolare e le norme rispettate.

In caso contrario, a detta sua, sarebbe stata una catastrofe. Nei giorni scorsi un’ispezione aveva rilevato una pendenza impropria del tetto del serbatoio; durante le operazioni di trasferimento a un altro serbatoio l’incendio sarebbe scoppiato, ipotizza el-Zein, per un probabile corto circuito.

Toccherà ora alla magistratura stabilire le cause e le dinamiche dell’incendio: il giudice Rahif Ramadan ha aperto un’inchiesta. Sul posto sono intervenute oltre 25 unità mobili dei vigili del fuoco che hanno prevenuto la diffusione delle fiamme a un altro serbatoio vicino. Anche l’esercito, a cui il carburante era tra l’altro destinato, come ha precisato il neo-ministro dell’energia Fayyad, è stato mobilitato per le operazioni di evacuazione.

Nel marzo scorso l’allora premier Diab rivelò che la compagnia tedesca Combi Lift, ingaggiata in seguito all’esplosione al porto del 4 agosto 2020 – in cui morirono più di 200 persone, ne furono ferite oltre 6mila e sfollate 300mila – per rilevare eventuali stoccaggi di materiale illecito nel paese aveva trovato «materiale chimico pericoloso» nei depositi di Zahrani Power Point. Poi la notizia era caduta nel vuoto.

La crisi finanziaria scoppiata nel 2019 che ha portato a una sempre crescente svalutazione effettiva della moneta locale (oggi al 120/130%, ma con punte del 160%) nei confronti del dollaro a cui rimane formalmente agganciata a un tasso fisso di 1.507 lire per un dollaro, ha ridotto lo Stato a non poter da aprile né importare la quantità di carburante sufficiente a produrre energia elettrica – quasi interamente prodotta a diesel -, né calmierare più quella che importa.

Beirut al buio nel fine settimana scorso (Foto: Ap) 

Le conseguenze ovvie: impennata dei prezzi, razionalizzazione della benzina, lunghe ore di buio totale, specie nei mesi scorsi, quando si è arrivati a poche ore di elettricità al giorno, forti ripercussioni sui trasporti interamente su gomma e su tutta la filiera. Alla produzione di Edl – Elettricità del Libano, la partecipata che già di norma non soddisfa il fabbisogno giornaliero – si affianca quella di una miriade di generatori privati (i libanesi lo definiscono un vero e proprio sistema mafioso) che forniscono le varie aree e i cui prezzi oggi, inutile dire, sono alle stelle.

Un sistema che tutti sapevano essere malfunzionante, ma che la bolla finanziaria non faceva percepire come causa di un imminente disastro. Da almeno dieci anni tutti gli analisti prevedevano il default, ma la situazione è precipitata con una velocità inaspettata.

Se il Libano rimane al centro di questioni di politica internazionale che ruotano attorno a Iran, Usa, Arabia saudita e Francia e se ciascuno degli attori prova a trarre vantaggio dalla situazione, la crisi non lascia molto tempo al governo appena insediato di Mikati, dopo i 13 mesi di stallo che certo non hanno aiutato.

Gli 11 miliardi di dollari promessi dal Fondo monetario internazionale in cambio di riforme sociali (ancora imprecisate) dovrebbero dare respiro a un’economia in ginocchio, ma soprattutto una qualità di vita inaccettabile per una popolazione stremata dalla crisi e dalla serie di calamità che continua ad abbattersi sul Libano e che sembra non avere fine.