E poi rimasero in tre, come nel titolo di quel vecchio (e bruttarello) album dei Genesis. Oggi iniziano la fase finale delle «primarie» Labour, le votazioni per il nuovo leader: dopo l’abbandono di Emily Thornberry, i candidati alla leadership del partito laburista a contendersi l’eredità di Jeremy Corbyn saranno, da sinistra verso il centro, Rebecca Long-Bailey, Lisa Nandy e Keir Starmer.

Sono loro ad aver raccolto sufficienti sostegni dai sindacati e dalle varie realtà affiliate al partito. In ballo c’è anche il vice del futuro leader, avendo l’ex vice Tom Watson dato le dimissioni qualche mese fa. A disputarsi questa carica saranno Angela Rayner, Dawn Butler, Ian Murray, Rosena Allin-Khan e Richard Burgon.

Si voterà per posta o email per tutto il mese di marzo e il 2 aprile si chiuderanno i seggi per annunciare il vincitore, il 4 aprile, nel corso di un congresso straordinario convocato allo scopo. Gli aventi diritto saranno quei 585mila iscritti che fanno del Labour il più grande partito europeo benché ancora rintronato dalla recente debacle elettorale, una legnata come non se ne incassavano dagli anni Trenta.

Sì perché lo schianto dell’era Corbyn ha significato un afflusso di oltre centomila ritorni all’ovile, ex membri che avevano lasciato il partito perché spaventati dal «giacobinismo» del leader uscente.

Si utilizzerà il metodo preferenziale: se nessuno dei candidati guadagnerà più del 50% alla prima tornata l’ultimo classificato sarà eliminato, i suoi voti ridistribuiti ai rimanenti fin quando uno di essi non raggiunga detta percentuale.

Il favorito è il centrista Starmer. Avvocato di grido impegnato sul fronte dei diritti civili e dei lavoratori, (Sir) Keir ha prestato servizio come ministro-ombra per Brexit e rappresenta la continuità con il centrosinistra incarnato da Ed Miliband.

Lisa Nandy reca il monito del grosso collegio di Wigan, città (orwelliana) del Lancashire che rappresenta in modo lapidario quel vulnus-Brexit che ha fatto del red wall del nord operaio una staccionata sbilenca. Si “tiene” i suoi elettori, cercando di scagionarli dalle accuse di razzismo che gli piovono addosso dalle frange più «progressiste» del partito e dei commentatori.

Che molti di loro abbiano preferito mandare a Downing Street la pericolosa accozzaglia di insularisti targata Cummings/Johnson pur di fermare l’immigrazione, è il dilemma laburista del giorno. Nel redde rationem post-elettorale la vicinanza a Corbyn – aveva ricoperto dicasteri ombra di tesoro ed energia – si è puntualmente rivelata tossica per Long-Bailey: un sondaggio del Mail on Sunday la relegherebbe addirittura in terza posizione.
Nonostante il sifone escrementizio scatenatosi nel partito dopo la catastrofe, il clima tra i tre contendenti non potrebbe che definirsi irenico.

Tutti hanno avuto parole di encomio per i rispettivi avversari e confermato che affideranno loro ruoli importanti nel governo-ombra qualora eletti. Starmer sta facendo il possibile per rassicurare circa la sua dedizione assoluta all’idea di unità.

«Dobbiamo smettere di farci a pezzi l’un l’altro», ha detto in una lunga intervista concessa a Sky. Anni luce dalla bava alla bocca e le staffilate alla schiena con cui i contendenti conservatori approcciano le proprie corse alla leadership, ma c’è poco da meravigliarsi: per gli uni contano le idee, per gli altri il potere.

Tutto questo nonostante reperti egittologici come Tony Blair abbiano prevedibilmente recuperato gli onori delle cronache e ricominciato a pontificare dai loro pulpiti offshore. Quanto al battuto e abbattuto Corbyn: ha detto che accetterebbe qualunque incarico gli fosse offerto dal vincitore.