Alfonso Santagata è una vera forza della natura, teatrale e umana. Da anni ha abbandonato le regole consuete di chi fa spettacolo, per concentrarsi invece su un modello che è insieme laboratorio e rappresentazione. Quando giunge in un luogo o in una comunità (lo fa da anni nelle miniere di Gavorrano, nella Toscana delle Colline metallifere) intraprende subito con i suoi attori un percorso laboratoriale assieme ai volontari del luogo, mirando a visioni da costruire che si riveleranno alla fine del lavoro. Lo ha fatto per anni nei luoghi più svariati (dalle dune di Castelporziano ai ruderi di Gibellina e ora in Maremma) raccontando cicli narrativi fondamento della nostra cultura. Da quello dei Labdacidi, ovvero la stirpe tebana che culmina in Edipo e le sue colpe, al ciclo degli Atridi e tutta la discendenza agamennonesca. E non sono mancate incursioni e incroci shakespeariani, magari facendovi interferire anche Pasolini.

È il laboratorio bellezza,  direbbe una classica citazione. Ma ora, raggiunta la maturità artistica, Santagata va a mettere «in discussione» (ovvero in scena) uno dei caposaldi dell’avanguardia non solo teatrale del ‘900, Alfred Jarry. Nasce così Gli Ubu a Ostia, frutto di un laboratorio intensivo tenuto nei giorni precedenti la rappresentazione al Teatro del Lido. Del cui spazio naturalmente l’artista non ha quasi utilizzato il palcoscenico (solo una piccola incursione), ma assieme ai suoi attori e al pubblico lo ha percorso tutto furiosamente, dal cortile al parcheggio, dai cancelli al tetto. I suoi attori erano Daria Panettieri, Sergio Licatalosi e Chiara Di Stefano, oltre a lui stesso naturalmente. Ma dal laboratorio sono emerse un’altra decina di figure, alcune di tutto rispetto scenico.

Della farsesca e distruttiva fiaba di Jarry, Santagata ha evidenziato non solo l’abituale lettura clownesca, ma ha fatto emergere come il potere sia non solo oggetto inesauribile dell’insaziabile appetito di Padre e Madre Ubu e della loro tremenda genìa, ma un vero e attualissimo comportamento politico. La scalata ai ducati e alle poltrone del trono, è un disegno lucidissimo, se non una malattia genetica inestirpabile. Con promesse e proclami strumentali, che ambiscono di fatto al solo potere e possesso di cibo, di corone reali, di paesi da governare, sia pure con tutti gli strafalcioni del caso. Dalle iperboli e dalla volgarità ben giocata, dalla povertà di spirito e dalla ricchezza di sfondoni, emergeva come non mai un amarissimo identikit dell’oggi. E la risata era fortunatamente troppo forte per evitare sul momento amarezza e desolazione.