E tre! Il progetto di Pier Paolo Poggio e della Fondazione Micheletti de L’altroNovecento. Comunismo eretico e pensiero critico in tre anni ha superato la metà del percorso. Il terzo dei cinque volumi previsti dall’opera è appena arrivato in libreria, non meno voluminoso dei precedenti (Il capitalismo americano e i suoi critici, Milano, Jaca Book-Fondazione Luigi Micheletti, 2013, pp. 719). Eppure, come e più di quelli, si presta a esplorazioni libere e plurime, con i suoi trentacinque agili contributi, opera di studiosi perlopiù italiani e statunitensi, che mai superano le venti pagine l’uno, corredati di note non maniacali e di una utile bibliografia. Lasciata l’Europa, il «comunismo eretico» prende il largo. In quattro sezioni dedicate a movimenti e conflitti sociali, razza e genere, correnti ideologiche e pensiero politico e teorie e critiche sociali, affronta il laboratorio-labirinto statunitense. Senza lasciarsi intimidire dalla traversata atlantica, nella sua bella Presentazione Poggio non rinuncia a respirare profondo. Colloca nel quadro internazionale novecentesco, cioè nel «secolo americano», la storia dei radicals di vario orientamento che – assieme, a lato e contro a frange progressiste e liberal – hanno criticato e combattuto un capitalismo con «un dinamismo senza pari», la cui «spinta espansiva…non si è ancora esaurita».

Conflitti epocali

Se è vero che «il comunismo ortodosso o eretico, inteso in una accezione storicamente determinata facente perno sulla rivoluzione russa e sviluppi successivi, non è stato un fenomeno rilevante nella storia politica e sociale nordamericana del Novecento, dove si è manifestata una pluralità di movimenti, lotte, ideologie e teorie politiche», è anche vero, dice Poggio, che «il comunismo è stato innegabilmente il referente principale della politica americana, il polo opposto che durante tutto il Novecento ne ha indirizzato scelte e strategie».

Di qui, il «rapporto americanismo-comunismo…per un verso di opposizione assoluta, per l’altro di mimetismo e concorrenza». Di qui, «il successo impressionante dei due miti contrapposti, capaci di orientare le scelte di vita e le passioni di milioni e milioni di individui» in una lotta «epocale» che, però, si rivela in realtà «scontro fra due realtà asimmetriche». Perché «mentre gli ideali americani, sia sotto forma di consumismo di massa che come patria della libertà e della democrazia, riuscivano a penetrare nel mondo comunista nonostante la ‘cortina di ferro’…il comunismo russo-sovietico non riesce a prendere piede con forza nella società americana».

Di qui, infine, la sostanziale egemonia interna dell’American way of life («il grosso della società condivideva l’American way of life senza significative critiche o atteggiamenti antagonisti»), ma anche il fatto che «le critiche più efficaci e puntuali al capitalismo americano provengono dall’interno della società e cultura americana e solo eccezionalmente e marginalmente si pongono come obiettivo la negazione totale dell’America, dei suoi valori e ideali. Molto più frequentemente la loro riautentificazione, lo smascheramento del tradimento che hanno subito, l’attuazione delle promesse non mantenute».

Torneremo brevemente alla fine sul rapporto con la tradizione politica autoctona statunitense. Qui preme sottolineare come la scelta di una chiave interpretativa aperta sul mondo, inevitabile parlando di «imperi» e di un paese popolato di schiavi, servi a contratto e immigrati, dia i suoi frutti perché scivola nel libro, ne pervade molti dei contributi facendosi dimensione transnazionale, scenario variegato di influenze che entrano ed escono dall’universo Usa e disegnano, in maniera fluida e mossa, i contorni mutevoli della protesta, della presa di parola comunitaria, della critica, individuale e collettiva.

Così è per gli Industrial Workers of the World, il celebre piccolo-grande movimento sindacale d’inizio Novecento di cui Salvatore Salerno ricostruisce la matrice anarchica e soprattutto transnazionale e internazionalista, con soci fondatori di spicco nati negli Stati Uniti come Big Bill Haywood, ma anche, come nel caso di Daniel De Leon (su cui il libro ospita anche un contributo di Lorenzo Costaguta), alle Antille, o in quello di William Trautman, in Nuova Zelanda.

Così è per il pacifismo radicale e femminista della Women’s International League for Peace and Freedom, una storia lunga un secolo tratteggiata da Maria Susanna Garroni. Così è per l’arcipelago di attivisti e organismi dei movimenti di liberazione afroamericani esaminato da Ferruccio Gambino, che colloca la battaglia antisegregazionista o l’incessante ridefinizione della vocazione politica di Malcolm X «contro l’esclusione» entro l’onda lunga dei movimenti anticoloniali e della decolonizzazione, da Alessandra Lorini, che getta uno sguardo globale sul pensiero antirazzista di W.E.B. Du Bois e Franz Boas, da Valter Zanin, che esamina un altro gigante del panafricanismo come C.L.R. James e il suo progetto di «rivoluzione come realizzazione dell’individuo sociale». O, ancora, per gli scienziati sociali fuoriusciti di lingua tedesca fra le due guerre mondiali studiati da Mariuccia Salvati.
Oltre alla dimensione transnazionale, un secondo elemento che emerge con forza dal libro è come tante delle voci qui presenti abbiano ingaggiato una complessa partita, di critica, lotta, rifiuto e sofferta convivenza, con le condizioni, materiali e culturali, della vita quotidiana, lavorativa e non.

Laboratori «radical»

È il caso naturalmente prima di tutto del movimento delle donne e del «personale è politico» indagato da Alexander Bloom a partire dall’omonima formula introdotta da Carol Hanisch nel 1969. O de La mistica della femminilità di Betty Friedan, di cui Elisabetta Bini insegue le radici di sinistra comunista, in seguito «mitigate» dalla stessa Friedan nella sua autobiografia. Ma è anche il caso della riflessione di Paul Buhle sui rapporti fra radicalismo e cultura popolare e di massa, che restituisce il ruolo politico svolto da cantanti come Harry Belafonte, Jimmy Cliff e Bob Marley nei movimenti per l’emancipazione razziale, oppure scrosta Bruce Springsteen e ci trova dietro come manager Jon Landau, il figlio di un insegnante di sinistra vittima delle «liste nere» maccartiste, o scopre che il manager del rocker di sinistra Tom Morello proviene dallo stesso ambiente radicale di Landau.

È il caso del rapporto fra musica popolare e movimenti esplorato da Alessandro Portelli. Certamente, questa nozione della «vita quotidiana» è molto vaga e magari bisognerebbe scomodare categorie come «biopolitica» e ingaggiare un’analisi comparata col pensiero radicale, marxista e non, europeo e mondiale. Ma si ha la netta impressione che, per quanto minoritario e incapace di «unificarsi attorno a una prospettiva condivisa», come dice Poggio, questo laboratorio radical d’oltre Atlantico meriti ulteriori perlustrazioni proprio su questo terreno, così come sul suo rapporto, di tensione e convergenza, con le tradizioni politiche autoctone.

Ad esempio, non è proprio così appropriato, definire – come fa Poggio – la proposta populista tardo-ottocentesca come «un capitalismo popolare facente perno sull’individualismo proprietario», specie se si intreccia quella proposta con il progetto cooperativista e collettivo dei Knights of Labor nelle loro mille anime. Né va da sé che, se misurato sulle enormi poste sulle quali si è impegnato, il composito laboratorio radicale Usa meriti una valutazione pessimistica e negativa, come quella che, in fondo, le assegna Poggio quando conclude che «né il sistema economico-finanziario né il complesso militare-industriale sono stati seriamente messi in difficoltà» dalle lotte degli anni sessanta e settanta.

È stato comunque bello leggere questo importante libro e alzare la testa dall’album di figurine scompagnate della vita e della politica nostre di tutti i giorni.