Mentre si aggrava di ora in ora il bilancio di morte e distruzione nella Striscia di Gaza, la possibilità che si arrivi al cessate il fuoco sembra ricalcare la radiografia degli intricati problemi politici del Medio Oriente.
Tanto il governo israeliano quanto Hamas pongono condizioni che non sono solo problematiche ma rivelano parzialmente le macchinazioni in corso dietro le quinte, e le contraddizioni che ostacolano il cammino verso veri negoziati di pace.

Se si analizza solo l’orrore della morte e della distruzione di questi giorni, non si possono vedere le questioni politiche che si nascondono dietro la guerra attuale, dietro ognuna delle due parti. Ogni parte ha le sue contraddizioni.

Il governo israeliano ha reagito in modo isterico alla creazione di un governo di unità nazionale palestinese fra Olp e Hamas. Mentre la comunità internazionale iniziava a vedere in questa entità un’occasione di miglioramento nella situazione, il primo ministro Netanyahu esigeva «l’allontanamento dei terroristi di Hamas dal governo» e minacciava diversi tipi di sanzione. Il rapimento e l’assassinio di tre giovani israeliani – fino a oggi non è chiaro chi l’abbia organizzato – ha fornito l’occasione per una grande azione di rappresaglia contro l’ala politica di Hamas in Cisgiordania.

Hamas cercava di limitare le azioni militari a Gaza, ma l’intensa repressione contro i suoi aderenti in Cisgiordania ha scatenato il lancio dei missili, gli attacchi israeliani e alla fine l’avvio della guerra in corso. Tel Aviv attaccava e al contempo cominciava a capire di aver bisogno di Hamas, almeno a Gaza, per evitare che la Striscia diventasse un fortino incontrollato di diverse fazioni islamiste.
Hamas è arrivato al governo di coalizione nazionale molto indebolito su tutti i fronti, ma ancora forte sul piano militare.

La sua prima e principale richiesta è stata la fine dell’accerchiamento della Striscia di Gaza e dunque il ritiro dell’assedio israeliano, che controlla tanta parte della vita nel territorio, ma anche la riapertura del valico di Rafah verso l’Egitto.

Il passo di Rafah è il punto di uscita più importante. È la porta verso il mondo arabo. Garantiva la libera circolazione dei leader e grazie a un gran numero di tunnel sotterranei permetteva intensi traffici economici, importanti anche per le casse del governo di Hamas a Gaza. Inoltre, era il collegamento simbolico con un grande alleato, l’Egitto.
Negli anni di Mubarak funzionava; nell’anno di Morsi e dei Fratelli musulmani, poi, l’alleanza conobbe un grande sviluppo. La caduta di Morsi e gli attacchi dei fondamentalisti islamici in Sinai contro le forze di sicurezza egiziane sono la chiave oggi per la – difficilissima – soluzione: il governo di al Sisi vede in Hamas la propaggine degli odiati Fratelli musulmani. Gli egiziani sono la vera chiave del cessate il fuoco e sono quelli che possono riaprire il passo di Rafah.

Il valico riaperto, e l’allentamento dell’assedio israeliano – che in questi giorni Tel Aviv sembrerebbe disposta a concedere – permetterebbero ad Hamas di proclamare il trionfo della resistenza armata. Questo riequilibrerebbe la critica interna. Hamas si rafforza con il sangue del proprio popolo; dell’immane distruzione a Gaza oggi è responsabile l’aggressione israeliana, ma essa paradossalmente serve alla linea militante all’interno dei palestinesi. Di sicuro, su questo, si leveranno prontamente voci dissenzienti.

Khaled Mashal, leader politico di Hamas, si è rifugiato in Qatar, emirato che oggi offre il principale appoggio economico all’indebolita Hamas, insieme alla Turchia, che ha accentuato le critiche a Israele. Qatar e Turchia sono considerati grandi nemici dall’Egitto che vede in questo una buona ragione per far pressione su Hamas al fine di esigere una rappresentanza congiunta con l’Autorità palestinese. Quando, nelle ultime ore, si parlava di una delegazione palestinese al Cairo, gli egiziani hanno chiesto che prima Hamas osservi una tregua.

La tensione fra Israele e Stati uniti è enorme. Gli statunitensi hanno cercato di trovare formule negoziali attraverso Turchia e Qatar – che sono grandi alleati di Washington – senza capire che agli occhi degli egiziani quei paesi approvavano il governo di Morsi e non hanno visto certo di buon occhio la rivoluzione che lo ha destituito. Netanyahu ha ricevuto vari segnali della rabbia statunitense, e richieste urgenti di un cessate il fuoco. Ma parte della soluzione dipende dalla capacità degli Stati uniti di convincere il loro stretto alleato Qatar ad acconsentire a una soluzione egiziana.

Senza l’Egitto non si può pensare a un vero cessate il fuoco e alla riapertura di Rafah. L’Egitto significa anche che la formula negoziale deve comprendere il governo di coalizione dell’Autorità nazionale palestinese. Questo significherebbe un possibile ritorno della presenza dell’Autorità anche a Gaza e al passo di Rafah.

Pare che nottetempo una delegazione israeliana si sia recata segretamente in Egitto. Per quel paese, non è in ballo solo Gaza; ottenere il cessate il fuoco sarebbe anche la chiave per il ripristino del ruolo centrale dell’Egitto sulla scena araba. E anche per dire agli statunitensi che devono cambiare atteggiamento di fronte al nuovo regime.

Poi ci sono l’Iran, l’Arabia Saudita, i russi, quasi silenziosi, insomma i presenti e gli assenti, tutti parte di un enorme labirinto. All’interno del quale sono in atto diversi giochi politici, per il potere, l’influenza, le grandi risorse economiche e umane. E insieme a tutto questo, fanno parte della realtà sul campo il sangue di tanti, e la grande distruzione.
In Israele il veleno del razzismo e dell’odio continua a crescere. Ormai non è più solo la strada, ma anche ministri come quello degli esteri Liberman a chiedere il boicottaggio dei negozi gestiti da arabi; si pensi poi ai tentativi di linciaggio a Gerulasemme, e alle reti sociali piene di messaggi razzisti, talvolta di stampo neonazista. Oggi il Primo ministro Netanyahu è quasi il moderato, in una coalizione che riflette il fondamentalismo religioso e la destra ultranazionalista.

Dopo il cessate il fuoco, che accadrà? Solo un vero cambiamento nei negoziati israelo-palestinesi potrebbe portare alla pace ed evitare un ulteriore ciclo di violenze.