È il 1958 a Francoforte. La Germania Ovest è nel pieno della ripresa economica. A più di un decennio di distanza, il baluardo dell’Occidente non mostra alcun segno delle rovine lasciate in eredità dalla guerra. Il Paese non è un semplice avamposto, una barriera eretta per arginare il pericolo comunista. È il simbolo di un futuro radioso. I bambini giocano, i ragazzi studiano, i giovani si apprestano a nuove avventure.

Peccato che in questa visione si insinui un nemico insidioso, la memoria. I maestri dei bambini, gli insegnati dei ragazzi e i datori di lavori dei giovani hanno vissuto e visto cose che non erano mai state vissute e viste. Molti hanno provato a (far) dimenticare, ad annegare la storia nell’oblio. Ma come si può cancellare uno sterminio di massa pianificato da una massa? Per quanto il progetto nazista di dis-umanizzare l’umanità sia andato vicino a realizzarsi, la natura umana è irriducibile. Qualcuno testimonierà, qualcun altro prenderà quelle testimonianze, così si formerà una narrazione che si moltiplicherà in miriadi di racconti. E il processo di dis-umanizzazione verrà arrestato.

Settembre 2014, Festival di Toronto. Viene proiettato un film di un regista italiano trapiantato in Germania, il cui curriculum fino a quel punto vantava numerosi lavori da attore: Giulio Ricciarelli il suo nome, Il labirinto del silenzio la sua opera prima da regista. che rappresenta la Germania nella corsa all’Oscar per il miglior film straniero.

Il labirinto del silenzio racconta la storia di uomini di legge che provano a ristabilire la verità storica e di altri che non vorrebbero riaprire ferite; di giornalisti che inseguendo i loro fantasmi danno la caccia a chi dopo un po’ è ricomparso sulla scena pubblica come se niente fosse accaduto; di padri e madri che dicono di non sapere; di funzionari che si difendono con la scusa dell’obbedienza; di vittime che sono state uccise due volte, la prima quando sono sopravvissute allo sterminio, la seconda quando sono state dimenticate; di donne che vogliono la propria indipendenza, sia dai padri che dai fidanzati.

Alcuni di questi personaggi sono inventati, su tutti il protagonista Johann Radmann, il giovane procuratore che all’inizio, come tutti i novizi, spera di ottenere dei casi stimolanti e che, improvvisamente, si trova a indagare su un luogo a lui, come a tanti altri suoi coetanei, incredibilmente sconosciuto: Auschwitz.
Johann è la sintesi di tre magistrati che nel 1963 portarono in tribunale diciannove membri delle SS, rei di aver lavorato nel campo di concentramento di Auschwitz. Questo personaggio è la parte più forte e, al tempo stesso, più debole del film, perché su di lui si concentrano sia i nodi problematici del dopoguerra tedesco, sia le drammatizzazioni che inevitabilmente tendono a semplificare vicende così complesse.

Fra i personaggi che vissero nella realtà di quegli anni vi sono il giornalista Thomas Gnielka e il procuratore generale Fritz Bauer. Al primo è affidato il compito di svegliare Johann dal sonno della ragion di Stato, al secondo di istruirlo su quale strada si debba percorrere per non perdersi nel labirinto.

Il giovane procuratore dopo aver preso consapevolezza della situazione grazie a Gnielka, inizia a scalpitare, a mostrare segni di incontenibile impazienza, vuole portare alla sbarra tutti i responsabili dello sterminio. Il fatto è che «tutti», con l’avanzare delle indagini significa davvero «tutti». Parallelamente prende corpo la grande ambizione: catturare Josef Mengele, l’angelo della morte. Arrestarlo (la storia della sua fuga e residenza in Sudamerica è raccontata in Wakolda, di Lucía Puenzo) significherebbe rendere giustizia a tante vittime, aggiungerebbe un tassello mancante alle sentenze del Processo di Norimberga o ad altre che seguirono, tra cui quella che nel 1961 a Gerusalemme portò alla condanna a morte di Aldolf Eichmann (oltre a Uno specialista di Eyal Sivan, il film tv, The Eichmann Show in sala a breve).

Per il procuratore generale il quadro è più ampio, il fine più alto. Non si tratta di impiccare un altro carnefice. Il compito del giovane Johann è quello di ridare voce alle vittime, di farle tornare a quell’umanità che sembrava perduta per sempre, attraverso la possibilità di narrare le proprie storie. Perché interrogarsi su Auschwitz significa rispondere a tre domande: come è accaduto, cosa è accaduto, ma anche cosa accadrà dopo.