I «Ricordi della giovinezza» che danno il titolo al nuovo film di Arnaud Desplechin sono quelli di Paul Dedalus, antropologo e viaggiatore irrequieto, uomo dall’abile ingegno e dall’abilissima lingua, perennemente in fuga, incantatore e seduttore precoce. Ormai adulto, dopo molti anni passati a girare i paesi dell’ex impero sovietico, lascia il Tajikistan per fare ritorno in Francia. Non perché gli vada, ma perché «deve farlo». Cosa lo obbliga a questo ritorno nel tempo e nello spazio? La politica? La morale? L’amicizia? L’amore? Il film non risponde direttamente. Ma tutto il processo rammemorante che lo costituisce è un tentativo di chiarire di che tipo di dovere si tratta.

Paul cade nel labirinto dei propri ricordi che, più che di madelaine, hanno il sapore aspro delle prugne. La madre è morta suicida quando aveva 11 anni, Paul la odiava, e consacrava il suo amore alla nonna (una meravigliosa Francoise Lebrun, vestita da uomo, con una amante russa e la cravatta alla George Sand). Gli amici, i due fratelli, una sorella fragile, in fratello ossessionato da dio. Il padre detestato anche lui, gli amici che diventano nemici, l’adolescenza a Roubaix, la provincia, negli anni Ottanta… Al centro del turbine un amore: Esther, bionda e provocatrice, odiata da tutte le ragazze, nel profondo fragilissima, l’amore della sua vita. E gli studi a Parigi, l’antropologa maestra, la soffitta senza soldi, la Tour Eiffel dalla finestra. L’amico ebreo e il passaporto dato a un ragazzo refusnik di Minsk per andare in Israele ai tempi dell’Unione sovietica …
Un film «sontuoso» Trois souvenirs de ma jeunesse – alla Quinzaine ma tutti lo davano in concorso, e la decisione di Thierry Frémau è stata molto criticata dalla stampa francese – e non solo per l’immagine morbidamente sensuale con cui il regista – complice la fotografia di Irina Lubtchansky, figlia del grande William – costruisce le sue incursioni nel tempo di una autofinzione che ritorna sui luoghi dei suoi film, e sulle sue passioni letterarie, Joyce – il Paul Dedalus come lo Stephen dell’Ulysse e Proust, e cinefile. Il respiro di questa memoria, intanto, punteggiata di immaginario, tra passioni rabbiose e assolute, il rito della formazione, il rimpianto dell’età adulta.

Ovvero la materia del romanzo di ogni tempo che Desplichin dispiega nel movimento di un’autofinzione quasi spudorata nel suo farsi immaginario. Roubaix è dove il regista è cresciuto, Paul Dedalus ha il volto, da adulto, del suo alter ego Mathieu Amalric, e da ragazzo di Quentin Dolmaire, bravissimo come tutti i giovani attori del film, a cominciare da Lou Roy Lecollinet che dà corpo e fragilità al personaggio di Esther. E il territorio di questa memoria privata eppure collettiva è quello del maschile, tortuoso, insopportabile, egotico messo a nudo con affetto ma non con compiacenza in un gioco di controcampo col fantasma della Donna – madre, amante, grande amore – impossibile.

Il labirinto è anche quello dell’immaginario che Desplechin ha dispiegato negli ultimi venti anni. Si entra nel 1991, con il gruppo di amici riuniti in una casa di campagna de La vie des morts. Con La Sentinelle ci imbattiamo in una storia di spionaggio. Viene poi Comment je me suis disputé (ma vie sexuelle) dove facciamo conoscenza con Paul Dedalus, Esther e molti personaggi che ritroviamo in quest’ultimo film… Girando ancora intorno alle stesse memorie, in Un Conte de Noel, sempre con Amalric, Desplechin racconta un rapporto estremamente conflittuale (mortifero) tra un figlio e sua la madre… Trois souvenir appare una sorta di mappa che ci fa entrare e uscire dall’isola del cinema di Desplechin.

Questa strana logica, per cui quello che viene dopo sembra più originario rispetto a quello che lo precede, è l’architettura delle storie di Desplechin, che non si basano mai sull’azione (nel senso del dramma) ma sempre sulla riflessione, autoanalisi, memoria. È la memoria che dà la forma al suo cinema e che spinge la storia a risalire la corrente della vita in cerca della foce di tutte angosce.

Ne esce fuori una materia singolare, privata e cinematografica al tempo stesso, estremamente cervellotica. Emozionante? Su carta, si tratta di una storia d’amore. Ma è difficile dire fino a che punto Desplechin filmi un rapporto. Certo, i due amanti non smettono di parlarsi, di raccontarsi, di inviarsi lettere, messe in scena come faceva Truffaut ne Le due inglesi con il mittente che le recita rivolto alla macchina da presa. Nonostante tutti questi campi e contro-campi, il film non diventa mai un vero scambio tra due esseri separati. Certo, il labirinto di Paul Dedalus è stracolmo di personaggi ma, come in sogno, sono tutti proiezioni del suo io. Due conseguenze. La prima è che il film, che narra azioni eroiche e i sacrifici di Paul, battuto ma mai piegato, è soprattutto una grande impresa di auto assoluzione. La seconda è che l’io, essendo sia la misura del mondo che la sua materia, è un universo gigantesco e limitatissimo.

Alla fine del ricordo c’è un monito: non ti riconcilierai. Paul Dedalus doveva tornare per confrontarsi non con il proprio passato ma con un mostro ben più temibile: se stesso. Se il passato non può essere ritrovato, non è perché sia passato ma perché è invece sempre presente, non fuori dal sé, ma nell’io. L’io è il minotauro che il nostro eroe affronta. Esther, come Arianna del mito, non è che una comparsa. Fornisce il filo narrativo, ma poi scompare.

Un filo virile lega invece il maschio di Desplechin a quello di Garrel. Entrambi straziati da un amore che li distrugge perché in fondo non sanno amare altro se non il proprio essere maschi. Paul dice che «l’intelligenza femminile non lo ha mai interessato» e, con un’acrobazia, conclude che per questo si era innamorato dello spirito sfrontato di Esther. Il protagonista di L’ombre des femmes parla del diritto del maschio a tradire perché il maschio è fatto così. Discorso rozzo ma più onesto del dedalo di sofismi in cui Paul nasconde il proprio narcisismo.