Immaginate di spegnere d’improvviso internet. Un po’ come fare un salto indietro di venticinque anni, quando i telefoni cellulari erano un gadget curioso, quasi nessuno aveva l’e-mail, e quell’anno il manifesto fu, assieme all’Unione Sarda, il primo quotidiano italiano ad avere una versione digitale. Ma oggi? Che succederebbe se per giorni, settimane o mesi non potessimo più accedere a internet? Tanto per cominciare, probabilmente non stareste neppure leggendo queste righe, che leggono quattro volte più persone in digitale che sulla carta.

EBBENE, nella valle del Kashmir, la regione indiana contesa dal 1947 tra Pakistan e India, sta succedendo proprio questo. Da agosto, quasi otto milioni di persone sono tagliate fuori. L’India, la più grande democrazia del mondo, è uno dei paesi dove la pratica dei tagli mirati all’accesso a internet è più diffusa: l’anno scorso ce ne sono stati quasi cento (ne ha scritto a più riprese sul manifesto Matteo Miavaldi). Non è l’unico caso (per esempio, Cina e Sudan; o la Turchia, che ha bloccato per 991 giorni l’accesso, ma solo a Wikipedia). Il kashmiro però è il black-out più lungo al mondo. Questa settimana, costretto da una sentenza del Tribunale supremo, il governo indiano ha fatto un piccolo passo indietro, riaprendo i collegamenti ma solo con una lista di 301 pagine web (fra cui alcune pagine di servizi, un paio di motori di ricerca, una manciata di media e qualche web di intrattenimento); molti media indiani sono ancora censurati, così come tutte le reti sociali. I dati dei telefoni sono limitati alla lenta rete 2G, una velocità a cui è difficile persino accedere all’e-mail, e a casa il Wi-Fi è ancora una chimera.

QUESTA ENORME CENSURA è iniziata quando il governo suprematista hindu del Bharatiya Janata Party del primo ministro Narendra Modi, in linea con una serie di decisioni polemiche, ha deciso di revocare un articolo della costituzione che garantiva al disputato territorio himalayano di Jammu e Kashmir a maggioranza mussulmana una sostanziale autonomia. Dopo aver gettato il fiammifero sul deposito di gasolio, per «prevenire incidenti» hanno imposto il coprifuoco, mandato l’esercito e, appunto, tagliato ogni contatto con l’esterno. La mossa non solo ha esasperato la popolazione, ma secondo molti osservatori ha causato vittime mortali: un esempio è l’iniziativa Save Heart Kashmir, il canale di Whatsapp creato da 1200 cardiologi di quelle impervie zone montagnose. Attraverso questo contatto informale, era possibile un intercambio di informazioni in tempo reale che aiutava a intervenire sul paziente con la consulenza dei colleghi. Inoltre, l’accesso alle pubblicazioni scientifiche e alle cure più recenti è uno strumento fondamentale per i medici.
E così, migliaia di persone ogni giorno dall’estate scorsa si stipano su un treno ribattezzato «Internet Express» che dalla capitale kashmira Srinagar li porta a una località a 110 chilometri di distanza per poter trovare un internet point che, dopo ore di attesa, permette di accedere alla posta elettronica, fare un documento, un’iscrizione all’università o mettersi in contatto con i familiari. La situazione è così inusuale che a dicembre ci si è persino accorti di una prassi di Whatsapp sconosciuta ai più: dopo quattro mesi di inattività, cancella automaticamente gli account e gli utenti escono dai gruppi in cui sono iscritti.

QUANDO D’IMPROVVISO migliaia di persone hanno visto uscire tutti insieme i loro amici kashmiri dai loro gruppi prima hanno pensato a un intervento governativo. Poi i portavoce dell’impresa di proprietà di Facebook hanno dovuto ammettere che non avevano previsto la possibilità di una censura prolungata. «Il blackout delle comunicazioni in Kashmir colpisce per la sua durata e radicalità», dice la giornalista Carola Frediani, esperta in tecnologia e cultura digitale. «Purtroppo però l’episodio fa parte di una tendenza crescente negli ultimi anni da parte di vari Stati a chiudere l’accesso a internet in regioni specifiche e per periodi specifici. Si tratta di una censura granulare, a macchia di leopardo, che cerca di evitare un blocco nazionale perché sarebbe troppo visibile e dannoso, anche economicamente. E che però permette di silenziare comunità o regioni specie in momenti di crisi e mobilitazione». Ma l’accesso a internet è un diritto? Secondo l’Onu, quasi: in una risoluzione (non vincolante) del 2016, l’Assemblea generale ha stabilito che «gli stessi diritti che le persone hanno fuori dalla rete devono essere protetti anche online», e in particolare la libertà di espressione protetta della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Non a caso paesi come Russia, Cina, Arabia Saudita, ma anche India e Sud Africa hanno appoggiato emendamenti per debilitare la risoluzione. È basandosi proprio su questa risoluzione che la Corte suprema indiana all’inizio del mese ha stabilito che l’accesso a internet è un «diritto fondamentale». Per lo stato indiano del Kerala lo è già dal 2017.

APAR GUPTA, direttore dell’ong indiana Internet Freedom Foundation, sostiene che quando viene ostacolato l’accesso a internet «vengono causati danni economici, sociali e individuali massicci», e che «i costi umani sono anche più profondi» perché «impedisce alle persone di cercare aiuto e le getta nel panico». Ma è il professore di etica globale all’università di Birmingham Merten Regliz a sentenziare in un articolo pubblicato a novembre sul Journal of Applied Philosophy che «l’accesso a internet non è un mero lusso per quelli che se lo possono permettere», perché garantisce «l’accesso a interessi e diritti umani cruciali», ed è «un diritto umano morale». Tutti, dice il filosofo dovrebbero avere il diritto a «un accesso non controllato e non censurato», che dovrebbe essere gratis per chi non se lo possa permettere.

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Il Sole che adesso vediamo meglio

La superficie solare somiglia a un puzzle, con tessere grandi come il Texas separate da linee scure; si evince dall’immagine ottenuta dal telescopio Daniel K. Inouye Solar Telescope (Dkist) di Maui, sulla cima Haleakala sacra ai nativi delle Hawaii che nel 2015 hanno protestato contro la sua costruzione; ancora incompleto, è già in grado di ottenere immagini del sole con una risoluzione di 30 km circa. A causa della radiazione solare, il telescopio raggiunge temperature in grado di fondere il metallo e quindi deve essere raffreddato in una piscina piena di ghiaccio; lo strumento dovrà scoprire le caratteristiche delle oscillazioni solari che conducono a tempeste di radiazioni e a spiegare perché nella corona solare che circonda la nostra stella si osservano temperature superiori di milioni di gradi a quella della superficie. (An. Cap.)

 

 

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Africa ed Europa per Homo sapiens

Uno studio pubblicato sulla rivista «Cell» rischia di stravolgere ancora una volta le teorie consolidate sulle migrazioni dell’uomo di Neanderthal e dell’uomo moderno fuori dall’Africa. Finora si riteneva che i neanderthal fossero arrivati dall’Africa in una migrazione antecedente a quella dell’essere umano moderno, e che dunque nel Dna degli africani odierni non ci fossero geni neanderthaliani. La ricerca invece ha scoperto che nelle popolazioni africane attuali i geni di Neanderthal sono effettivamente presenti. I ricercatori ipotizzano che Homo sapiens sia uscito dall’Africa già 200mila anni fa (molto prima del previsto), si sia ibridato con i Neanderthal, e poi ci siano state migrazioni a ritroso verso l’Africa, prima dell’ultima migrazione verso l’Europa di 60mila anni fa e dell’estinzione dei Neanderthal. (An. Cap.)