«Cerco un po’ d’Africa in giardino, tra l’oleandro e il baobab»: nulla a che vedere con Azzurro, molto con un continente pulsante sugli spartiti di library music, mitologico e iperreale, come quello ritmato dagli sfrenati rituali dionisiaci dei Maistah Aphrica, ottetto giunto al secondo disco dopo il folgorante esordio autoprodotto. Paganini evidentemente in Friuli-Venezia Giulia ripete: ecco allora di nuovo un sound ed un’architettura spericolati, esotici e familiari, caleidoscopici, ballabili e mai banali, zuppi di groove e di personalità. Un’Africa immaginata da chi in Africa non è mai stato, come suggerisce il nome della band: territorio fisico e mentale dunque, dove si mescolano dentro una cartina tocchi di ethiojazz à la Mulatu Astatke, solide briciole di groove di scuola Daptone Records, aspro, corroborante tabacco high life dall’Africa occidentale, delicate fragranze dubfunk e sapori psichedelici terrigni e celesti al tempo stesso.

BISOGNEREBBE FARE la radiocronaca, come fosse una partita di pallone (una traccia, travolgente esempio di afrosoulcore, si intitola G Weah), dei nove pezzi di questo album spericolato, selvatico e spettinato, che apre parentesi, titilla sinapsi, invita alla danza e fa stare bene senza suonare dispersivo nemmeno un secondo. Free your mind and your ass will follow, come dicevano i Funkadelic. Una felice attitudine cosmica, come degli Heliocentrics mondati delle ombre isolazioniste e con il sorriso stampato in faccia, è quella che anima questa tribù di friulafricani, musicisti talentuosi e menti aperte, capaci di spaziare all’interno dello stesso episodio tra sapori anche molto diversi tra loro, creando un ibrido saporito che inebria e non vi darà problemi con la polizia. Una vera e propria raccolta di inni alla gioia fatti musica. Maistah: xe meo!