Eden. Un’immagine, un desiderio, un’utopia. Un giardino rallegrato da un cinguettio. Animali colorati tra i rami. Ampi respiri nella natura. Eden of Carolyn, Eden selon Rachid, Eden secondo Michele, tre danze singole per un singolo spettatore in un teatro vuoto da 850 posti. 30 assoli al giorno per 30 spettatori, dieci repliche ad autore: Carolyn Carlson, Rachid Ouramdane, Michele Di Stefano per un totale di dieci danzatori che si alternano in scena. Siamo al festival Bolzano Danza, al Teatro Comunale della città. Eden è il progetto pensato per questo nostro tempo difficile: un progetto simbolico ideato dal direttore artistico Emanuele Masi in collaborazione con i tre coreografi, nomi cari al festival, un’esperienza di condivisione che difficilmente verrà scordata dai 450 spettatori coinvolti sino a fine luglio.

L’ENTRATA centrale del teatro è coperta dal manifesto del festival, un meraviglioso giardino, metafora dell’idea portante di Eden. Si entra da un’entrata laterale per l’assolo prenotato. La visione è gratuita, c’è una lista d’attesa per i prossimi appuntamenti. Una maschera accompagna il singolo in sala. Ogni spettatore ha la sua storia alle spalle, una frequentazione consueta o saltuaria del teatro, ogni danzatore ha il suo percorso, ma c’è qualcosa oggi che tragicamente unisce tutti, al di là dei ruoli: la certezza di cosa sia un lockdown, la comprensione della fragilità dell’uomo, il confine labile tra vita e morte, la libertà del corpo così stravolta e a rischio nel presente, nel futuro. Una verità che accomuna il singolo spettatore con il singolo danzatore, con i tecnici dietro le quinte, con le maschere che ci accompagnano, con chi fa le luci, con chi è alla regia.
Ed ecco i tre lavori, esperiti entrando e uscendo ogni volta dal teatro. Il nostro trittico inizia con l’Eden di Di Stefano, in scena il performer Luciano Ariel Lanza. La possibilità di questo primo Eden è l’incontro tra persone.

LA RELAZIONE tra lo sguardo del danzatore e quello dello spettatore taglia come una linea invisibile il grande spazio vuoto, rendendo viva anche nel corpo di chi è in sala la dinamica improvvisa, potente della danza. Lo sguardo del performer torna di continuo allo spettatore e si è fragili entrambi, ma vicini, uniti da un sentire che viaggia sulle parole di You & I di Jeff Buckley. Si esce con in mano una lettera scritta dal performer al suo spettatore, qualcosa da leggere in un giardinetto di palme e divanetti rossi, dove ancora una volta percepirsi insieme a distanza. Sensazione ben conosciuta di questi tempi.

IL PERCORSO si ripeterà per gli altri due assoli. Il nostro Eden of Carolyn è con Sara Orselli, danzatrice di Carlson da vent’anni. Carlson ha creato due assoli, uno per Sara, l’altro per Riccardo Meneghini, si alternano tra mattina, pomeriggio e sera. Musica di Guillaume Perret. Con Orselli il sipario si apre su una donna in lungo, al centro della scena, lo spazio illuminato intorno a lei è piccolo e in penombra. Percepiamo il soffio, il respiro che il corpo cerca nello spazio a sé immediatamente adiacente, le braccia si intrecciano, si allungano in diagonale, le mani carpiscono, accarezzandolo, il volume dell’aria, e nella circolarità del movimento, nell’allungarsi verso l’alto, nell’ampliarsi il gesto, lo spettatore è invaso da un’energia centrifuga: qualcosa che raggiunge lo spazio lontano attraverso la luce che illumina sempre di più la scena, una luce azzurra, cosmica, mossa anche sul pavimento, creativa di quella visione aperta, negata in questi mesi. La danza si espande, ma, quando l’assolo sta per finire, lo sguardo esplorativo di Sara nella scena ci riporta alla domanda su quando saremo liberi, su cosa sarà il futuro di noi tutti. Una questione che pervade il corpo mentre per la seconda volta ci si ferma a decomprimersi in giardino.

IL TERZO Eden è di Rachid Ouramdane, in scena Annie Hanauer, già danzatrice dei Candoco, con cui nel 2009 e 2012 partecipa ai Giochi Paraolimpici, di Emanuel Gat e Boris Charmatz. La scena questa volta è al vivo, senza fondale, la musica è l’Adagio per archi di Samuel Barber, un capolavoro, come scrive Ouramdane, impregnato di gravità, ma anche di speranza, oscurità, luce. Resta nel cuore la delicatezza di quel gesto delle braccia che si aprono alzandosi verso l’alto insieme allo sguardo, una ricerca, di nuovo, di un respiro che ci è tanto mancato, che ancora ci manca, la resilienza senza la quale non ce l’avremmo mai fatta. E ci commuove la danza di Annie, così umana nel far sentire la bellezza di resistere senza negare la fragilità. E così quando a fine giornata torniamo per l’ultima volta in giardino, la necessità del teatro, del suo rito collettivo, è nel corpo vigorosa: una voce che lascia la sua eco di desiderio nello spazio vuoto della sala.