Alla luce della luna i ragazzini neri diventano blu: fin dal suo titolo, la pièce di Tarell Alvin McCraney da cui è tratto Moonlight evoca una dimensione lirica, tra realtà e sogno. Con movimenti di macchina circolari, lenti e ipnotici, frequenti ralenti, un uso del colore che «forza» la profondità degli azzurri, dei bruni e dei rosa, e alcune abili ellissi narrative, Barry Jenkins, nel suo film, allude a quella stessa dimensione altra, ma poi la stempera in un realismo poetico più convenzionale, rassicurante. Frutto dell’intersezione/sovrapposizione delle biografie di Jenkins e McCraney (quasi coetanei, sono cresciuti nello stesso quartiere) Moonlight è un racconto di formazione diviso in tre capitoli, che corrispondono a tre diverse età del protagonista –un bambino/adolescente/adulto afroamericano e gay. Il teatro è Liberty Square, un complesso di case popolari, nell’entroterra di Miami, concepito durante il New Deal come una cittadella (segregata) ideale, esploso con le riot del 1968 e, 20 anni dopo, devastato dall’ epidemia del crack.

Il ghetto, cuore pulsante della blaxploitation dei seventies e del cinema di guerra della black renaissance anni novanta (Clockers, Boyz ‘n the Hood , New Jack City), in Moonlight, diventa lo sfondo della tormentata scoperta d’identità di Chiron (il protagonista, interpretato da Alex Hibbert, Ashton Sanders e Trevante Rhodes) in un’opera programmaticamente «piccola», intimista, educata; un melò che avanza in punta di piedi, pieno di silenzi per «farti pensare». Il problema è che persino quei silenzi sembrano scritti. Nel 1990, il texano Marlon Riggs (e la PBS, già sulla lista nera dei tagli alla cultura di Trump) avevano fatto scandalo portando in prima serata tv Tongues Untied, un doc sull’omosessualità black e sull’omofobia che circonda ragazzi come Chiron, spesso proprio nelle comunità afroamericane in cui crescono.

A confronto con quello che ormai dovrebbe essere un reperto d’epoca, forte della vena creative del queer cinema, in un momento di forza della comunità gay e in cui anche Hollywood è molto più integrata, Moonlight (prodotto da Brad Pitt) è un film di una timidezza (formale, erotica e politica) frustrante. Una timidezza che si è offerta come antidoto ideale alla goffa, dogmatica, aggressività di The Birth of a Nation, ed è stata premiata con 8 nomination agli Oscar. Alla luce del black cinema di quest’anno (ma anche dell’incandescente Chi-Raq di Spike Lee), il consenso è ingiusto ma comprensibile.

Nell’impianto minimal del film – il bambino che viene torturato dai compagni e adottato dallo spacciatore del quartiere perché la mamma è distratta dal crack; l’adolescente che scopre di desiderare un amico, e dopo averne subite troppe, reagisce contro i suoi aggressori giocandosi tutto; l’uomo trasformato dalla prigione (ma che è rimasto vergine!) –

Jenkins ha già introiettato dosi tali di determinismo e di perbenismo cinematografico da rendere i suoi personaggi meno delle creature – che vivono, respirano, ci sorprendono- che delle ombre. Pericolosamente vicine a dei cliché.