Sciarrino operista? Sì, ma dov’è la notizia? Lo è stato spesso: ha scritto lavori di teatro musicale diventati famosi come Lohengrin (1983), Luci mie traditrici (1998), Macbeth (2002). D’accordo, ma il punto non è se il compositore siciliano che abita da decenni a Città di Castello, quasi sicuramente il più importante compositore italiano vivente, si è cimentato o no col teatro musicale. Il punto è che nei lavori che prevedono il canto e un testo o vari testi che rimandano a una storia (un «libretto»), Salvatore Sciarrino, musicalmente parlando, si è collegato ben poco alla tradizione dell’opera lirica. Questa volta parecchio. Almeno nella prima parte della Nuova Euridice secondo Rilke, che sulla carta non è nemmeno teatro musicale. Ma in questa prima parte gli echi dell’opera lirica della grande tradizione, non solo di quella antica, sono avvertibili più che in ogni partitura precedente.

La nuova Euridice secondo Rilke è in prima mondiale (commissione dell’Accademia di Santa Cecilia) all’Auditorium romano. Apre un gran concerto diretto da Antonio Pappano (nel secondo tempo comprende il Magnificat BWV 243 di Johann Sebastian Bach). Si tratta di una cantata per voce di soprano e orchestra. Ma è qualcosa di più nella prima delle due parti in cui è divisa: è un melodramma in forma di cantata. La presenza del testo, di un accadimento narrato nel testo, si avverte (la lirica Orpheus, Eurydike, Hermes di Rilke, tradotta e adattata dallo stesso Sciarrino, nella quale il senso della vicenda di Orfeo ed Euridice viene mutato: Orfeo si volta a vedere se Euridice lo segue perché ha paura, paura del mondo dei vivi che sta nuovamente per affrontare). Si sente una voglia di teatro che è voglia di melodramma, non solo di drammaturgia musicale. Il recitativo, in questo «recitarcantando», suona per qualche tempo come un vero e proprio recitativo tradizionale.

Tutto questo prima che la grande chanteuse Barbara Hannigan, qui un po’ trattenuta, lei che ha anche uno spirito diavolesco, si ritrovi, nella seconda parte dell’opera, elaborata sulla lirica Alla Musica di Rilke – ed è una sorta di appendice ben significativa – in sottili disegni di suoni «incorporei», anzi: generati da un corpo senza organi che si muove nella ricerca di suoni nascosti, di una vita nascosta e proprio per questo pulsante. Gli echi della tradizione si dissolvono. La radicalità della scrittura vocale di Sciarrino torna a farsi sentire dopo una specie di eclissi. E sono campi sonori collegati attraverso glissandi o brevi sillabazioni.

Ma in tutto il lavoro, che rischia di diventare uno dei più originali nel catalogo sciarriniano, proprio per la sua complessità ed eterogeneità rischiosa, l’orchestra è fonte di prodigi.
Nel procedere delle sequenze orchestrali si ammirano in una forma scarna e ricchissima di colori nello stesso tempo gli accenni di linee di suoni che sembrano essere concepiti come omaggio all’incompiutezza, come desiderio permanente. «Portamenti» degli archi, scuri fondali ancora degli archi, respiri trepidi e soffi dei flauti. Prodigi. Prelibatezze.

E Bach? Il Bach di Pappano? E dell’Orchestra, del coro, delle voci bianche dell’Accademia di Santa Cecilia, in ottima forma? È animato e danzante (introduzione orchestrale a Magnificat anima mea), è dolcissimo (Et misericordia), è arioso e affettuoso. Anche se i soprani Amanda Forsythe e José Maria Lo Monaco, il tenore Paolo Fanale e il baritono Christian Senn sono un pochino ingessati. Di filologia neanche l’ombra, di pesanti toni «teutonici» nemmeno. Uno scandalo per i puristi, probabilmente. Ma quanto lo si gode così.