In Versilia hanno costruito una rete per togliere l’ombra ai venditori ambulanti. Sadici amministratori hanno deciso che anche l’ombra è proibita per i «vu cumprà». Non bastassero diritti negati e dignità calpestata. Ma in Calabria fanno anche di più. Sbocciano i ghetti «istituzionali» per i migranti. Corigliano, ore 7, di una torrida mattinata di luglio. È arrivato Caronte, il potente anticiclone nordafricano. Ma per Nourredine, Ahmed, Nabil, Moustafà, Youssef, ogni giorno è uguale agli altri. Caldo o freddo che sia, escono da una saracinesca di un magazzino di via Albenga, alla Marina di Schiavonea, popolosa frazione marinara affacciata sullo Jonio. Una fila di palloni modello «Super Santos», cinte, portafogli, articoli da mare, secchielli, salvagenti. Nourredine, il più anziano, sui 60 anni, spinge a fatica il carrellino ambulante direzione lungomare. Dietro di lui, tutti gli altri marocchini. L’immobile, al cui pianterreno sorge il magazzino, è un palazzo scrostato di tre piani con annessa corte. Alle pareti scritte anonime e segni di incuria. Al catasto dei fabbricati del comune di Corigliano Calabro esso è localizzato sul foglio numero 72, particella numero 180, subalterno numero 7. Il locale, 69 metri quadri d’ampiezza, è di categoria catastale C/2, vale a dire un «deposito-magazzino». La proprietaria risponde al nome di Antonietta Rugna. Un nome come un altro, forse. Anzi no. Un nome ingombrante, eccome. È la moglie del sindaco, Giuseppe Geraci, un passato da parlamentare di An, e un presente da primo cittadino, appena eletto dopo un biennio di commissariamento della città per infiltrazioni della ‘ndrangheta. L’insegna in grande vista che campeggia sul magazzino è invece riconducibile ad un’attività commerciale, da tempo dismessa, del figlio del sindaco. Da quando, 40 giorni orsono si è insediato sullo scranno più alto del Municipio, Geraci ha fatto parlare di sé. Uno scandalo dietro l’altro.
A capo del consiglio comunale il sindaco e i suoi hanno eletto la proprietaria di un villone abusivo con vista mare. La costruzione verrà demolita e lei si è dimessa da presidente del Consiglio. Ma non da consigliera perché a suo dire nella medesima condizione di abusivi si troverebbero altri consiglieri. Ora la vicenda del magazzino dato in fitto ai migranti. Ma c’è di più. La testata coriglianese Altrepagine, diretta da Fabio Buonofiglio, ha scoperto che in realtà quel deposito, per legge «non abitabile», è da tempo la dimora di Nourredine e compagni. Non solo deposito ma anche dormitorio. «Cento euro al mese e a cranio», spifferano alcuni residenti, «ovviamente sulla parola e senza alcun tipo di contratto». Nel locale di via Albenga intestato alla moglie del sindaco vi sono brandine per una mezza dozzina di persone, in condizioni igieniche e sanitarie che paradossalmente dovrebbe essere proprio Geraci, nella veste di massima autorità sanitaria, a controllare ed eventualmente sanzionare. C’è pure un angolo cucina ma non è dato sapere se sia provvisto di acqua potabile. I partiti di opposizione (Sel e liste civiche) chiedono di sapere se il fitto pagato dai lavoratori migranti è regolato da un contratto e se il sindaco ha provveduto a far cambiare la destinazione d’uso dell’immobile, ammesso che ciò sia possibile, dichiarandolo come civile abitazione e non più come magazzino. La differenza non è di poco conto, considerato che le seconde case pagano al comune l’Imu, di gran lunga più salata rispetto a un semplice deposito. Il sindaco ha convocato un consiglio comunale straordinario. Buon senso vorrebbe che si dimettesse. Non lo farà.