Ci sono Han Solo e la principessa Leia, Chewbacca e una bella scena in una taverna popolata di banditi intergalattici, un duello tra padre e figlio a colpi di spade laser colorate, paesaggi fatti apposta per innescare viaggi proustiani della memoria, l’amore incondizionato per la serie B, e persino quel vago odore di muffa d’avanguardia che pervadeva il visionario anacronismo del primo Star Wars, nel 1977. É dolce/amaro il ritorno di Guerre Stellari, settimo capitolo in ordine cronologico, e il primo della terza trilogia. Studente giudizioso più che dotato di una sua visione originale, abilissimo a trasformare in algoritmi le passioni e le debolezze dei fan, J.J. Abrams si conferma per gli studios un buon investimento quando si tratta di riciclare una franchise «sacra» come questa. Tagliando i ponti con la tormentata, progressivamente più cupa, politica, e digitalizzata seconda trilogia, e con il doloroso spirito autoriale che l’attraversava, Abrams ricuce nei dettagli, il suo Il risveglio della Forza ai primi tre film.

L’effetto (applausi a scena aperta nell’unica proiezione stampa di New York) è retro, quasi vintage. La Forza, però ne esce un po’ come da un forno a microonde. In altre parole, nell’epica battaglia tra George Lucas e i miliardi di fan della sua immensa creatura (lo scontro è ben immortalato nell’avvincente documentario The People versus George Lucas), hanno clamorosamente vinto i fan. E la Disney, lo studio che (subentrando alla Fox) distribuisce The Force Awakens, e al quale Lucas ha ceduto, nel 2012, i diritti dell’intera saga di Star Wars, dopo averli gelosamente conservati per più di trent’anni. Un abbinamento il suo di totale controllo creativo ed economico che ha fatto dei primi sei Guerre stellari dei film «indipendenti», blockbuster ossessivamente personali- e una delle grandi anomalie del cinema hollywoodiano contemporaneo.

I termini del passaggio di consegne siglato con Il risveglio della Forza sono stati studiati con grande cura. Li si riconosce a partire dai credit della sceneggiatura, in cui, di fianco al nome di J. J. Abrams, compare quello di Lawrence Kasdan, co-autore insieme a Lucas dei copioni di L’Impero colpisce ancora (1980) e Il ritorno dello Jedi (1983), cronologicamente parlando il quinto e il sesto episodio della serie, nella realtà i due girati subito dopo il successo planetario e completamente inaspettato dello Star Wars originale. La storia di The Force Awakens inizia trentacinque anni dopo la fine di The Return of the Jedi, e la presenza di Kasdan dietro alle quinte sembra garantire non solo un ponte diretto, affettivo, con i personaggi di allora che tornano in questo film, ma anche con lo spirito e la cinefilia che avevano informato le prime incarnazioni dell’utopia lucasiana. Il ritmo narrativo è infatti più simile a quello dell’avventura classica, espressa nei serial anni trenta, che erano il paradigma originale di Star Wars, che all’azione ipercinetica del action movie hollywodiano di oggi. Controtendenza rispetto all’uso volutamente esibito, quasi sperimentale, che Lucas ha fatto dell’estetica digitale nella seconda trilogia, Abrams (che ha girato in 35mm e in Imax) riporta a The Force Awakens una qualità materica, più rassicurante. Le immagini sono meno stilizzate, più realistiche – i grandi deserti sabbiosi riconoscibili, i burroni innevati di The Empire Strikes Back, la passerella sospesa sul vuoto nero su cui avviene un duello cruciale come quello tra Darth Vader e Luke Skywalker. Si ritrovano anche lo humor e un certo camp dei primi tre film, che Lucas aveva progressivamente sostituito, nella seconda trilogia a una visione politica sempre più cupa.

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La classica scritta gialla su fondo blu, accompagnata dalle note del tema di John Williams, ci informa all’inizio che, da quando Luke Skywalker, l’ultimo Jedi, è scomparso, la Repubblica ha dovuto retrocedere di fronte alla forza maligne del Primo ordine. Leia, che da principessa è diventata generale ed è il capo della Resistenza, ha inviato uno dei suoi piloti più fidati, Poe Dameron (Oscar Isaac) alla ricerca di Luke. Insieme a Poe, è un nuovo drone, rotondo e garrulo, BB-8 che, durante uno scontro con i bianchi stormtroopers del Primo ordine, diventa il custode della mappa galattica che dovrebbe portare al Jedi. La prima ovazione del pubblico arriva all’apparizione del Millennium Falcon, mezzo seppellito nelle sabbie del pianeta Jakku. «Ma è un ferrovecchio», grida la giovane cacciatrice di rottami Ray (Daisy Ridley), prima di mettersi ai comandi della mitica astronave di Han Solo, anche in lei in fuga dagli stormtroopers.

Da lì, facendo presa sui familiari giochi edipici, il film comincia a intessere il suo attento puzzle di intarsi tra il passato e il futuro – Han, Leia, Chewy, Luke, la vecchia guardia, incrocia quella nuova, composta da Ray, Poe, Finn (un disertore del Primo ordine, interpretato da John Boyega) e Kylo Ren (Adam Driver, il nuovo arrivato più riuscito di tutti), che porterà avanti la serie nei due episodi già previsti, per il 2017 e il 2019. Alcuni dei personaggi sono interessanti e viene voglia di conoscere le loro storie. Altri meno. Particolarmente poco riuscito è il Leader supremo del Primo ordine, un gigante digitale (dietro a cui si nasconde Andy Serkis/Gollum) che sembra appartenere a un altro film.

Come tutto in Il ritorno della Forza, anche il termometro della nostalgia è dosato con cautela; ed era forse inevitabile che i momenti più emozionanti risultassero la reunion tra Leia e Han e la brevissima apparizione di Luke. In gran parte affidati a volti su cui si legge, dolcemente, tutto il passare del tempo, sono i momenti che ci ricordano quando la Forza era veramente il simbolo di una rivoluzione. E una rivoluzione epica in tutti i sensi. Perché questo Episodio VII è un film molto intelligente, divertente e ben fatto. Ma anche reazionario.