Mai come oggi un approfondimento storico-critico-teorico su ciò che è stato il cinema sperimentale degli anni ’20 è necessario per comprendere meglio questa nuova fase che molti teorici definiscono post-cinematografica. A ben vedere negli ultimi decenni non sono mai diminuiti gli studi e le analisi dedicate all’avanguardia storica, vista come un serbatoio inesauribile di idee, concetti, modelli formali, tecniche, dispositivi, ecc. Anche con l’avvento del digitale si continua a guardare a quella stagione, innanzitutto come fertile territorio produttivo sotto il profilo intermediale e interdisciplinare. Ci aiuta in questo Punctum fluens. Comunicazione estetica e movimento tra cinema e arte d’avanguardia, un saggio di Antonio Bisaccia apparso una quindicina di anni fa per Meltemi e ora appena ripubblicato, con una prefazione di Patrick Rumble e una lunga post-fazione del cineasta canadese Bruce Elder.

Bisaccia – già docente di mass media e direttore dell’accademia di belle arti di Sassari e autore di libri su Alexejeff e Snow – prima di approfondire l’analisi di singoli film che ritiene significativi per la configurazione di un’estetica della sperimentazione, si cimenta nell’impossibile compito di definire cosa sia questo ambito cinematografico, a partire dalla inefficacia terminologica. Dopo aver optato per il termine “sperimentale” abbandonando quello di “avanguardia”, tra le varie caratteristiche ne isola una che sicuramente trova d’accordo in molti: «film sperimentale è allora quel film in cui il messaggio è in qualche modo autoriflessivo, richiamando l’attenzione sulla sua stessa struttura». Il concetto fondante del libro, che ispira anche il titolo, è in realtà un ossimoro teorico: da un lato abbiamo il punctum, che Barthes teorizza (nel suo La camera chiara e e nel saggio Il terzo senso) in opposizione allo studium e può essere definito come un elemento – minimo e indecifrabile – che affiora improvvisamente nel testo (fotografico o filmico che sia) investendoci e “pungendoci”. Un “significante senza significato” che in realtà contiene il vero senso dell’opera. Dall’altro abbiamo il flusso, statuto proprio del cinema e – aggiungiamo noi – soprattutto di quello sperimentale, libero da interruzioni narrative, tanto più che in quei film realizzati senza macchina da presa (alcune sequenze di Le Rétour à la raison di Man Ray, ad esempio), non c’è neppure la scansione in fotogrammi e ci troviamo davvero di fronte a film-flusso.

Tra i temi del libro emerge sicuramente il raffronto tra la cosiddetta prima e seconda avanguardia, ovvero tra un cinema che – pur conservando l’istanza sperimentale – slitta verso la narrazione e cerca di imporre al grande pubblico procedimenti linguistici e tecnici altamente innovativi e un cinema d’artista che si rivolge a una élite di persone ma è libero da qualsiasi drammaturgia che non sia quella puramente visiva. Della prèmiere vague fanno parte Delluc, Epstein, L’Herbier, Gance e Dulac, figura quest’ultima che si divide perfettamente tra narrazione e sperimentazione integrale, anche se le interferenze tra le due avanguardie si manifestano per esempio Léger, che realizza le scenografie per L’inhumaine di L’Herbier e disegna il manifesto della Roue di Gance, modello per il suo Ballet mècanique, film simbolo dell’avanguardia storica, insuperato coacervo di stilemi (cubo-futuristi e dada-surrealisti), cui Bisaccia dedica un interno capitolo, evidenziandone l’aspetto dromologico (Virilio) e concludendo che «la nuova scienza è la dromologia della visione dell’oggetto e del frammento».

Dopo un altro capitolo monografico incentrato sul film Entr’acte di Clair e Picabia, l’ultima parte di Punctum fluens – intitolata Inciampo e rapsodia – passa in rassegna gli altri importanti film di area dada-surrealista, fino alla conclusione cronologica del decennio. E tra l’altro Bisaccia nota giustamente che «il surrealismo non nasce dalle ceneri del dadaismo (come si dice da più parti), ma semplicemente rielabora quei concetti e quegli atteggiamenti in chiave costruttiva (senza altre implicazioni)».

Tale sintetico viaggio dentro un universo filmico “fuori placenta”, oltre a rappresentare un lucido compendio storico-critico, offre diversi spunti teorici interessanti, che gettano luce su quello che Bisaccia definisce «cinema senza razza diventato un’enciclopedia delle energie bastarde che non chiedono rango e che hanno come destino la spoliazione di un immaginario rovesciato».