C’è sempre dell’acqua nelle immagini di Tsai Ming Liang, e ci sono frutta o vegetali, spazi vuoti, luoghi indistinti di folla o di natura, pesci rossi e volti in primo piano che si imprimono nell’inquadratura mentre l’obiettivo scava dentro alle loro emozioni, ai tumulti che possono balenare anche in un impercettibile tremolio della palpebra. E ci sono soprattutto solitudini che si stagliano in quei paesaggi di amori sospesi, forse mai dichiarati, ferite, tabù famigliari, allegrie dolorose, un’umanità dimenticata. A unire i frammenti è lo sguardo del regista taiwanese (nato in Malesia) che in ciascuno dissemina qualcosa di sé, non una vera e propria autobiografia, anche se all’origine ci sono sempre memorie personali, infantili o adulte poco importa – a proposito di quel capolavoro che è Goodbye Dragon Inn (2003) raccontava alla scorsa Mostra di Venezia quanto fossero entrati in quel film le sue esperienze da bambino che i nonni, coi quali viveva, avevano fatto appassionare al cinema portandolo ogni sera a vedere anche più di un film nelle sale ormai sparite come il Dragon Inn. Sono istanti fissati su una tela in continua trasformazione, che negli anni dallo schermo hanno assunto altre forme, installazioni, VR – seguendo gli sbalzi delle esistenze, dei sentimenti, e il desiderio del loro autore di sperimentare molte direzioni possibili.
Days – Giorni – arrivato quasi alla fine nel concorso della Berlinale dove da qualche giorno si comincia a scommettere sul possibile Orso d’oro – era molto atteso visto che dopo Stray Dogs (2013) Tsai Ming Liang aveva annunciato di non voler più girare film per passare a altro, esperimenti con le immagini, costruiti come sempre intorno al suo attore icona, quasi un alter ego su cui ha proiettato negli anni le proprie visioni. E Lee Kang-Sheng, è anche all’origine di questo film, con la sua malattia molto dolorosa alla schiena e al collo peggiorata col tempo modificando il suo aspetto e la sua andatura: nelle prime scene del film osserva da solo il mondo fuori dalla finestra massaggiandosi l’aorta, e poi mentre cammina in strada si tiene il collo sperando in un qualche sollievo. Lo ritroviamo in una lunga seduta di agopuntura a cui si aggiungono dei carboni accesi… Intanto a Bangkok un ragazzo (Anong Houngheuangsy, alla sua prima apparizione sullo schermo) si prepara da mangiare: Tsai lo filma per lunghi minuti nella stanza disadorna mentre pulisce le verdure, lo vediamo immergere dei ciuffi di insalata nell’acqua, tagliare a listarelle un cetriolo – che ricorda un po’ il cocomero di Il gusto dell’anguria, mescolare con cura, poi farsi la doccia con l’acqua della catinella, uscire, dirigersi al mercato dove lavora.

SONO LORO i protagonisti di questa storia senza parole, tranne qualche frase sussurrata, narrata con le immagini: nei movimenti della macchina da presa, nei suoni che circondano i due personaggi, nei loro corpi che si mettono in gioco dentro agli spazi attraverso i gesti del quotidiano. A un certo punto i due si incontrano in una stanza d’hotel di lusso, il ragazzo inizia a massaggiare l’uomo sofferente, il ritmo dei suoi gesti è preciso, calmo, somiglia a un respiro, e il cercarsi di quei corpi – che è cura, desiderio, sensualità, piacere – diviene un’epifania improvvisa, l’essenza stessa del cinema.

È UN INCONTRO a pagamento – l’uomo ha preparato dei soldi – ma si intuisce una consuetudine, qualcosa che elimina l’imbarazzo, che permette ai due di farsi la doccia insieme, di mangiare in un piccolo snack bar e all’uomo di offrire al giovane un regalo «romantico». È in quei minuscoli scarti che si rivelano le storie, che colano piano i sentimenti, le possibilità: un incontro, la tenerezza, la malinconia dell’assenza. Tutto qui, che è tantissimo, come il filo nascosto dell’esistenza. Può quasi sembrare una scelta di resistenza un film come Giorni oggi, quando tutto è scritto, spiegato, evidenziato e il cinema sembra avere perduto di vista la propria natura visuale, oppure la confonde con pretese di «democratico» autoritarismo sprezzante. Cosa è dunque Giorni? Una storia d’amore forse, e la messinscena del tempo che si dilata, danza, scorre, è il tempo del cinema e della sua durata, che l’autore continua a esplorare nella sua opera, in modo sempre diverso, nell’andamento qui punteggiato da una strana casualità, dei fuoricampo, dei vissuti filmati con dolcezza.
RISPETTO a altri film c’è forse una malinconia più tangibile, come se quel tempo del cinema fosse anche quello della vita, coi suoi mutamenti e i suoi detour non sempre desiderati, il tempo del regista che torna a girare un film – «Ma non avevo mai smesso» dice – portandovi altre emozioni e esperienze. L’apparenza semplice è la sua sostanza preziosa che non ha bisogno di apparati per esibire chissà quale genialità: tutto è lì col suo mistero, in un equilibrio che non è scontato raggiungere, nell’allenamento di una poetica che trova ancora l’intuizione di giocare con sé stessa.