I tredici libri della saga di Oz che seguirono il primo e noto Il Meraviglioso Mago di Oz di Frank Baum non sono sequel, non nell’accezione riduttiva del termine, ma ennesime puntate con autonomia e smalto propri e non inferiori al capitolo d’esordio delle avventure della bambina del Kansas che finì nella città di Smeraldo a bordo di un ciclone. Sono trame fantasmagoriche e potenti, ricche di invenzioni linguistiche e letterarie, provocazioni e spunti di riflessione sociopolitica: sono anche – e per prima cosa – fiabe, familiari negli Stati uniti e praticamente ignorate in Europa; lo sono state a lungo in Italia, dove hanno avuto una pubblicazione tardiva (nel 2009 per Robin Edizioni) e la prima raccolta illustrata dell’intero ciclo solo lo scorso anno, uscita per Einaudi con traduzione e cura di Chiara Lagani e immagini di Mara Cerri. Un lavoro poderoso che la drammaturga attrice dei Fanny&Alexander e la sua amica geniale Cerri hanno condotto intessendo un dialogo tra testo e immagini da cui escono arricchiti sia parola che illustrazione dando vita a un volume che dovrebbe trovare posto  in ogni biblioteca per ragazze, ragazzi e adulti e da poco uscito in edizione tascabile (cioè insomma, servono tasche capaci).
Oz è una fiaba d’America che è però stata capace di segnare l’immaginario di chi l’ha sognata oltre i confini degli States grazie in prima battuta alle immagini del film che Fleming ne ha tratto nel 1939, il primo trionfo in technicolor della Metro-Goldwyn-Mayer, girato in un set circondato da aura mitica dove sono fiorite leggende metropolitane (come quella riferita al suicidio di uno degli attori che interpretavano il popolo dei Mastichini) e capitate incredibili reali coincidenze (il soprabito usato per il mago di Oz/Frank Morgan – veniva da un rigattiere e, si venne a scoprire, era appartenuto a Baum). Il film che ha regalato al nostro patrimonio pop le scarpe di rubino (nel libro sono d’argento) e le note di Over the Rainbow, ha fatto anche di Salman Rushdie uno scrittore e Gore Vidal un sognatore, per citare giusto due esempi illustri.
È una pellicola archetipica come il mito di Dorothy verso cui pure si concede vistose libertà. Più fedele a Baum è un altro film, del 1985, che riprende la storia di Dorothy dal secondo libro della saga ed è stato prodotto dalla Walt Disney Picture. Return to Oz («Il fantastico mondo di Oz» in italiano) è un lavoro poco conosciuto, che mostra un mondo di Oz distopico, pieno di invenzioni e innesti, disturbante e lontanissimo dal magnificente universo di streghe verdi e cavalli arcobaleno di Fleming. Lo ha diretto l’inventore del sound design, colui che ha montato le musiche di Apocalypse Now (nonché quelle del Padrino parte III, del Paziente Inglese e di molto altro): Walter Murch. Il montatore e regista, vincitore di tre premi Oscar, nella sua vita artistica ha fatto un sacco di cose importanti e il suo interesse per il suono, unito a quello per l’astrofisica (in particolare per la legge Titius-Bode, un arcano dell’astronomia) è arrivato alla volta celeste con studi sull’ armonia musicale nella configurazione delle orbite dei pianeti del nostro sistema solare e di quelli appartenenti a sistemi extrasolari.
Come accade spesso a chi ama Oz la vicenda artistica di Murch si dirama in molte direzioni oltre l’arcobaleno; del resto anche Chiara Lagani è stata chiamata a tradurre i 14 volumi di Baum dopo il poliedrico lavoro attorno al mago condotto, dal 2007 al 2009, coi Fanny&Alexander dando vita a partiture musicali, video installazioni, spettacoli. Abbiamo raggiunto Walter Murch per un’intervista, eccola:

Come è stato misurarsi con una sceneggiatura basata su così tanti libri e districarsi tra 13 trame così dense?

Dovendo fare una scelta abbiamo considerato che La Meravigliosa Terra di Oz, il libro scritto da Baum come primo sequel del Mago di Oz, aveva dentro personaggi meravigliosi (Jack Testa di Zucca, il Cavalletto e Mombi) ma non vi compariva Dorothy. Ozma di Oz aveva il ritorno di Dorothy ad Oz, la gallina Billina, Tik Tok, Ozma e il Re Niomo, così Gill Dennis ed io abbiamo deciso di combinare insieme questi due libri in particolare cercando di pendere il meglio da entrambe le storie; sarebbe stato impossibile fare un film senza Dorothy!

E come è stato invece affrontare l’eredità cinematografica del kolossal del ’39, così profondamente radicato nell’immaginario collettivo?

Questa è stata una vera sfida, e ovviamente sapevamo fin dall’inizio quanto fosse grande. Abbiamo deciso di evitare il confronto diretto, per quanto possibile, privando Return to Oz di ogni richiamo al genere musical, e ingaggiando una bambina di nove anni, Fairuza Balk, nel ruolo di Dorothy (che nel libro aveva quell’età ); in generale rendendo il film più realistico rispetto al kolossal del 1939, che è stato invece chiaramente realizzato interamente studio, con scenografie espressionistiche e interpreti vaudevilliani in costume. Nel nostro film invece per la rappresentazione delle creature fantastiche siamo ricorsi a una fusione tra la tecnologia dei Muppet e la Claymation (la tecnica della plastilina animata tipica della step motion, ndr)

Il regista e sound design Walter Murch

Il lato dark di Oz che il tuo film restituisce si accorda allo spirito dei libri di Baum, ma come avete fatto a convincere la Walt Disney Production a seguirvi in questo progetto di una Città di Smeraldo un po’ horror? La Disney non aveva mai prodotto film paurosi prima, fatta eccezione per «Qualcosa di Sinistro sta per accadere» da «Il popolo dell’autunno» di Ray Bradbury e «Gli occhi del parco».

All’inizio ci hanno lasciato fare senza troppe lamentele. Ma lo studio ha cambiato gestione due volte durante le riprese e la post-produzione del film, e ogni direzione aveva opinioni diverse. La squadra finale (Eisner e Katzenberg) non si è preoccupata del film e mi ha lasciato praticamente da solo a finirlo, senza supervisione, accettando la pellicola come prodotto di una precedente amministrazione. Un’ottima cosa…

Il film di Fleming e il primo libro di Baum si concludono con l’happy end del ritorno a casa ma sia gli altri libri che il tuo film raccontano di una sorta di pendolarismo di Dorothy tra il Kansas e Oz. Si potrebbe dire che il messaggio di Baum sia in effetti «ogni posto oltre l’arcobaleno è meglio di casa»? Come ha scritto Steinbeck forse abbiamo sopravvalutato le radici come bisogno psichico e il nostro impulso, più profondo e antico è il bisogno, la volontà, la fame di essere altrove.

Questa è una buona domanda e mi piace la citazione di Steinbeck. Qual è il clou del finale del primo film? Il risveglio di Dorothy che comincia a raccontare a tutti quelli che sono attorno al suo letto del posto meraviglioso in cui è stata e si rende conto di essere presa per pazza. Quello che lei fa a quel punto è semplicemente dire agli altri ciò che vogliono sentirsi dire cioè.. «nessun posto è bello come casa propria». ..ma io non penso che lei ci creda davvero. Lei sa che gente si stufa ad ascoltare il racconto dei sogni degli altri… ma Dorothy non può dimenticare quello che ha vissuto fuori del suo mondo, ed è dal ricordo e dalla tensione verso quell’altrove meraviglioso che emerge Ritorno ad Oz.

Anche lei è diviso tra mondi diversi, esopianeti e trame fantastiche (Oz ma anche Tomorrowland) e la realtà più spietata (Apocalypse Now). Dov’è il posto che chiama casa?

Quello che mi interessa è muovermi tra mondi diversi, realtà e fantasia, e il mio lavoro di sound designer si sovrappone molto a quello della ricerca della regolarità musicale nelle traiettorie orbitali (spiegata nel libro a lui dedicato dal Premio Pulitzer Lawrence Weschler Waves passing in the Night, ndr). La cosa meravigliosa del lavorare nel cinema è che può fare esperienza di livelli e di realtà multiple: ogni film è di per sé una vita in miniatura.