Dal cuore di tenebra della guerra in Vietnam a quello del razzismo, inestricabilmente radicato alla storia Usa, in costante dialettica tra l’allora e l’oggi, per un’immutabilità devastante sottolineata dai volti di attori sessantenni che interpretano sé stessi da ragazzi senza il beneficio del make up digitale di The Irishman, Da 5 Bloods è un tour de force narrativo/politico/emotivo in linea con la vena più dinamitarda, caotica e irrisolta dell’opera di Spike Lee. Che spesso è anche la più interessante.

AGGIUNGENDO il suo nome a una lunga tradizione di autori americani (da Wayne, a Coppola, Cimino, De Palma, Stone, Stallone e Mel Gibson), Lee si avventura nelle giungle del Sudest asiatico citando Apocalypse Now, Il tesoro della sierra madre e Rambo («un film fatto per vincere una guerra persa – Hollyweird!» ) – i suoi personaggi accompagnati da camei di Mohammed Ali, Angela Davis, Bobby Seale, Malcolm X e Martin Luther King; dalle note e dalla voce di Marvin Gaye e dal fantasma di Black Panther/Chadwick Bosman.

Paul (Delroy Lindo), Otis (Clarke Peters), Eddie (Norm Lewis) e Melvin (Isaiah Withlock Jr.) tornano in Vietnam per un’ultima missione – recuperare i resti del loro adorato capitano, Stormin’ Norman (Bosman), seppelliti in una zona sperduta del verde. Insieme a quei resti – e questa è la parte più della segreta della missione – i quattro bloods rimasti vogliono recuperare anche un baule di lingotti d’oro, cargo di un aereo militare americano abbattuto dalle forze Vietcong.

L’intervista di Luca Celada a Spike Lee

Lee coreografa la riunione degli amici con i toni affettuosi di una commedia alla Grumpy Old Men (Due irresistibili brontoloni) che poi squarcia in flash improvvisi di dramma -i petardi con cui un bambino vietnamita mutilato terrorizza i veterani, schernendoli quando loro si buttano a terra «G-Men! G-Men!»; le suppliche e poi l’ira di un uomo che cerca di vender loro un pollo («Avete ucciso mio padre e mia madre»); l’apparizione di una figlia di cui non si conosceva l’esistenza. Il passato – l’ultima battaglia combattuta insieme- «irrompe» quando lo schermo si restringe, in formato 4/3, la grana della fotografia che diventa più flou, e la giovinezza «pura», bellissima ed eroica di Bosman stride con le rughe, le pance e i capelli bianchi degli attori molto più anziani di lui.

 

Da 5 Bloods. Da sinistra, Spike Lee con I protagonisti del film – foto Netflix

 

COME già in Miracolo a Sant’Anna, la voce di una donna «nemica» alla radio (è Hanoi Hannah che qui annuncia in split screen l’uccisione di Martin Luther King) ricorda ai soldati afroamericani che sono stati mandati a morire lontano da casa in quantità straordinariamente più alte di quelli bianchi. «Questa non è la mia guerra» dice Alì in un celebre discorso del 1978.

Lee e il suo co-sceneggiatore Danny Bilson tratteggiano appena le biografie dei personaggi – Eddie (che ha pagato la missione) sembra quello che se la passa meglio; Otis (il più pacato) va a trovare la prostituta vietnamita di cui si era innamorato; Paul (che sulla testa sfoggia un cappellino Make America Great Again) è quello che lotta più visibilmente con i demoni interiori, al punto che suo figlio, con cui non va d’accordo, lo ha seguito di nascosto a HoChi Minh City per tenerlo d’occhio.

L’intervista di Luca Celada a Delroy Lindo

LA PARTENZA per risalire il fiume è salutata da La cavalcata delle valchirie – sottile non è uno degli aggettivi di Spike Lee. Da quel punto, il film si addentra anche cromaticamente in una dimensione progressivamente più allucinatoria e in una serie di trame subalterne – sicuramente un accenno alla componente francese degli interventi in Vietnam già incapsulata dalla sequenza della piantagione di Apocalypse Now– che includono Jean Reno nel ruolo di un avventuriero di cui non fidarsi e Melanie Thierry in quello di una ragazza francese che ha rinunciato all’eredità per redimere il passato coloniale del suo paese andando a disinnescare mine.

Lee butta in campo idee a raffica, come una serie di agguati nella giungla, o un gran finale di fuochi d’artificio. Alcune cascano meglio di altre -l’energia intellettuale che trascina con sé, quasi fisicamente, le due ore e mezza di film.

Il finale splatter ha tocchi di Re Lear.