Ne sappiamo ancora troppo poco della strage nel mercatino natalizio di Charlottenburg a Berlino. Se si tratti di un’azione spontanea e individuale come quelle che lo stato islamico è solito attribuirsi comodamente a posteriori o di un attacco più organizzato e articolato all’interno di una strategia che si accinge a prendere di mira sistematicamente la Germania, come già è accaduto con la Francia. Di certo, chi ha condotto a termine l’attentato ha seguito una modalità notoriamente prescritta e suggerita dagli strateghi del Califfato: l’uso micidiale dei normali veicoli in circolazione. Fino ad oggi la Repubblica federale era stata teatro di numerosi allarmi, ritenuti talvolta addirittura eccessivi, e gli attacchi effettivamente subiti si sono svolti tutti all’insegna dell’improvvisazione individuale, se non di un conclamato squilibrio mentale (la sparatoria di Monaco di Baviera, l’episodio più grave, che fece 9 vittime). Insomma, la minaccia terroristica, almeno quella riconducibile a una pianificazione politico-militare, era considerata abbastanza ridotta e sotto il controllo dell’intelligence.

Con il 20 dicembre potrebbe essersi invece prodotto un salto di qualità e non solo per la devastante riuscita dell’attentato nel cuore della capitale tedesca. La Germania è infatti un bersaglio di grande rilevanza. E lo è in una logica diversa e più propriamente politica di quella, essenzialmente vendicativa, applicata alla Francia per il suo impegno sul terreno in Medio oriente e in Africa (la Repubblica federale non ha partecipato ai bombardamenti in Siria e in Iraq). Berlino è il cuore dell’Europa e il centro riconosciuto di una egemonia continentale. Il paese senza il cui peso e la cui volontà politica l’Unione europea soccomberebbe alle crescenti spinte centrifughe che ne minano la tenuta. È, inoltre, la pietra angolare di qualsiasi politica europea sull’immigrazione e sui richiedenti asilo. La quale politica è, a sua volta, una forma di intervento nella crisi medio-orientale e di relazione con i suoi diversi attori. A dirigere questa orchestra è ancora Angela Merkel, nuovamente candidata alla Cancelleria e, almeno fino ad ora, senza solidi concorrenti all’orizzonte. Destabilizzare Berlino significa dunque ostacolare le scelte politiche della Cancelliera. La quale, di fronte all’eventualità che l’attentatore provenisse dalle file dei richiedenti asilo, ha ribadito ancora una volta che il principio di accoglienza non poteva essere messo in questione, sebbene ulteriori limitazioni non siano affatto escluse. Nondimeno tra le prime reazioni all’attentato abbiamo assistito all’irruzione delle forze di polizia nel grande hangar dell’aeroporto di Tempelhof, destinato alla prima accoglienza dei rifugiati. Nessun arresto, ma un messaggio piuttosto leggibile su dove potrebbe annidarsi la minaccia. Non sono mancati, poi, gli strepiti di circostanza da parte della destra nazionalista che, pur senza possibilità alcuna di avvicinarsi alle leve del potere, torna sempre buona come argomento nell’arsenale di quanti intendono spostare verso destra l’asse del partito di maggioranza relativa, la Cdu. Ma anche nella sinistra radicale, nelle file della Linke, non mancano inquietanti espressioni di ostilità nei confronti del tema immigrazione, consideratao un “diversivo” dalle problematiche sociali.

La carica emotiva suscitata dalla strage di Charlottenburg non può essere sottovalutata e un insidioso senso di insicurezza comincia a farsi strada tra i cittadini della Repubblica federale. Se l’obiettivo è quello di spingere a una polarizzazione ostile tra l’immigrazione islamica e il resto della cittadinanza europea (e questo i propagandisti dell’Isis lo hanno ripetutamente asserito) non c’è niente di meglio che cominciare dalla Germania con la sua pretesa di governare ordinatamente i flussi migratori, e dal sabotaggio sistematico delle sue politiche di “integrazione”, del resto non prive di dispositivi discriminatori tali da alimentare il risentimento dei migranti. Se il fragile equilibrio raggiunto a Berlino dovesse franare, con un sensibile spostamento dell’opinione pubblica e del quadro politico verso posizioni di chiusura, l’Europa farebbe un ulteriore passo, forse irrimediabile, verso la dissoluzione.