L’esordio subito colpo di fulmine di questa edizione del Festival di Locarno è stato Kaili Blues (Cineasti del presente, migliore regia) opera prima di Bi Gan, un film radicale e di lucidissima libertà espressiva. Il mondo in cui ci porta il giovane regista cinese è quello dentro e intorno la cittadina di Kaili, nella provincia di Guizhou, simbolo di una Cina sul baratro di passato, presente e futuro.

 

Lo osserviamo dalle finestre di una piccola clinica dove un medico e la sua anziana assistente vivono come fantasmi tra i propri ricordi e rimorsi. Finché l’uomo decide di compiere un viaggio verso un passato lasciato fuoricampo, sulle tracce della moglie che non ha più visto da anni, di una promessa alla madre defunta, e di un nipote amato che il fratello ha forse venduto.

 

L’anziana donna gli chiede di portare al suo amore di un tempo una cassetta musicale e una fotografia… Nel gioco di specchi, e di lancette di orologi spostate da un bimbo che le disegna i sui muri, Chen cerca i segni di una memoria personale nel paesaggio che si snoda lentamente intorno a lui, e nel suono delle poesia che la voce recita fuoricampo. All’arrivo nella cittadina di Dangmai, laddove vive ancora l’antica cultura Miao, il tempo pare lacerare il suo movimento, e con esso la scrittura del film, che quasi montato sui versi di Chen si perde in un atto indefinito di durata.

 

 

 

Un piano sequenza di quaranta minuti che segue il movimento di una ragazza tra una sponda e l’altra del fiume, appare come la deriva di un cinema che cerca di sperimentare la conciliabilità tra presente, passato e futuro, dove gli elementi di definizione cambiano continuamente: un modesto gruppo rock che ripete in loop la sua canzone, decine di orologi che appaiono bloccati, il detour di motorini che entrano ed escono dal campo per un attimo: a Dangmai solo la compenetrazione delle esistenze e delle azioni può definire la vita. E quel piano sequenza, così come nelle molte invenzioni di regia che costruiscono il film, diviene l’ unico mezzo linguistico possibile per riferire questo scarto di reale, quando finisce rimangono solo la musicassetta e quella fotografia, tutto il resto pare già scomparso, inghiottito nel baratro dell’oblio, nascosto nella nebbia delle colline, racchiuso e cristallizzato in un angolo del cuore.

 

C’è qualcosa di autobiografico nel film, il regista è cresciuto in quella regione, e senz’altro ci sono molti riferimenti alla Cina di oggi, alle fratture di un paese enorme che ha lasciato alle spalle molte cose, così ripetutamente ambiguo e indefinibile, da cercare anche nel misticismo onirico ed ancestrale una sua possibile identità. Un Paese e che ha bisogno continuamente di coordinate, necessita di fiumi da oltrepassare come di storie da ricostruire, in cui la profondità di campo va cercata nello scavo continuo dei gesti e dei volti, non nel paesaggio.

 

 

Al tempo stesso il respiro è quello du un blues,epifania di esistenze, malinconie di amori perduti, dolcezza triste della vita che scorre, implacabile, la cui materia si imprime nelle immagini, e sfugge lungo i loro bordi. Il medico torna sul treno, nessuno può sapere la sua destinazione; mentre entra ed esce dal buio delle gallerie e chiude gli occhi, nel vagone che giunge in senso contrario appare un orologio, che si muove.
Il giovanissimo Bi Gian , pare dirci proprio ciò: non dobbiamo opporre resistenza al flusso della vita, lasciarla scorrere è l’unico tentativo possibile di una riconciliazione, dell’anima, nell’umano.