Quando torna da sé, della memoria di qualcosa vorremmo talvolta liberarci, perché ci fa soffrire o perché ci schiaccia in una condizione che crediamo non ci rappresenti adeguatamente di fronte agli altri. Altre volte invece vorremmo che la memoria fosse pronta a presentarsi a comando, a nostro piacimento. Nel primo caso la memoria vuole paradossalmente l’oblio, fino al punto oggi di richiederne l’istituzionalizzazione in un «diritto all’oblio». Nel secondo caso la memoria vuole invece il ricordo puntuale e duraturo, anch’esso sempre più istituzionalizzato in un «dovere della memoria».

COME CI AVVERTE nel suo libro Felice Cimatti, La fabbrica del ricordo (il Mulino, pp. 187, euro 14), ricordare e dimenticare non sono esattamente opposti simmetrici. Appare maggiormente possibile che l’oblio possa essere incluso nel ricordo, mentre sembra meno possibile che il ricordo possa essere incluso nell’oblio. Rimane comunque che essi sono inseparabili. Considerarli invece come separati vorrebbe dire attribuirgli tempi, luoghi, soggetti e oggetti che si rivelano inconsistenti. Così, sostiene Cimatti, quando ricordiamo non abbiamo tanto memoria di un fatto del passato, quanto dell’impressione che abbiamo al presente di quel fatto.

ANALOGAMENTE, non ricordiamo ciò che si trova all’interno del nostro cervello, ma è grazie a un evento esterno che il ricordo viene a noi. Inoltre, se ricordare è necessariamente deformare ciò che è accaduto, la deformazione non è riducibile a menzogna, ma costituisce l’inevitabile effetto collaterale del lavoro stesso della memoria. Non si può ricordare tutto l’accaduto. Per serbare memoria di qualcosa occorre fare spazio con l’oblio di qualcos’altro. I ricordi che non dobbiamo impegnarci a rammentare – Cimatti li definisce impliciti – non costituiscono tanto un giacimento del nostro passato, ma ciò che noi stessi siamo al presente. Questi ricordi non siamo tanto noi a ricordarli, quanto loro a ricordare noi. In questo caso il ricordare e il ricordo coincidono in modo forte, come in quelle tradizioni il cui momento istitutivo non occorre più rievocare, perché indistinguibile da ciò che tramanda. Si pensi invece a quanto deboli siano le cosiddette giornate per questa e per quell’altra memoria, che esistono solo perché qualcuno burocraticamente ce le ricorda.

D’ALTRO CANTO PERÒ, si pensi anche che ciò che viene puntualmente ripetuto, senza che qualcosa o qualcuno ce lo ricordi, può diventare anch’esso una routine. O, per usare le parole della psicoanalisi che Cimatti prende in prestito, una sorta di «coazione a ripetere». In tal senso, chi ripete, in realtà non ricorda.
L’asimmetria tra ricordo e oblio mostra come la memoria sia un campo di tensioni. Ma se tale asimmetrica tensione è così caratterizzante la memoria, possiamo tenere separati i due tipi principali che Cimatti indica di essa, cioè la memoria implicita e la memoria volontaria? Non è forse proprio l’esperienza clinica della psicoanalisi a farci osservare che le due non possono essere separate completamente e che al loro interno ognuna ha anche un po’ dell’altra? Che la reminiscenza non può essere tutta ridotta alla memoria volontaria e così questa non può essere completamente separata dalla memoria implicita o involontaria? Indursi o indurre (da parte dell’analista) a ricordare è un processo soggetto a deviazioni. La fine dello stesso processo di rimemorazione, in genere non sbocca in estuario, ma in delta. A ciò si aggiunga che il ricordo che sembra venire del tutto spontaneamente è, in ambito analitico, anche quello che spesso si presenta come più delirante o allucinatorio, ma non per questo completamente avulso dalla realtà, come ci avverte lo stesso Freud sulla scorta dei poeti.

È ANCHE tenendo conto di quest’ultimo assunto di Freud, che forse va intesa la frase di Ricoeur citata da Cimatti, secondo la quale «non si può fare storia senza fare la storia». Anzi, potremmo dire che nel fare le sue ricostruzioni, compito dello storico (e dello psicoanalista) è anzitutto quello di rendere accessibile l’asimmetrica inseparabilità fra ricordo e oblio. Forse proprio per questo compito «storico», all’ultimo Freud non era parso più sufficiente il solitario modello archeologico della rimemorazione del paziente, (nella stanza d’analisi, come nella storia non si è da soli). E ciò non solo perché, come in ogni scavo, per arrivare a un certo strato dobbiamo danneggiarne inevitabilmente altri, ma anche perché il danneggiamento è contemporaneamente una ricostruzione.
In questa correzione di tiro dell’ultimo Freud, rispetto al Freud di Ricordare, ripetere e rielaborare del 1914 evocato da Cimatti, la psicoanalisi sembra non lasciare spazio a nessun possibile accordo con il cognitivismo – soprattutto con l’idea che da qualche parte ci sia un reale deposito di tracce mnestiche nel quale, prima o poi, metteremo le mani.