Da’Wah cos’ chiamano nella scuola coranica indonesiana di Dalwa, la predicazione dell’Islam, una parola che sta per invito. «Il nostro compito è invitare le persone al bene non spaventarle». E ancora: «L’Islam si insegna con gli argomenti e non con le spade». Siamo a Pasuruan, nella provincia orientale di Giava, una zona che conta almeno duecento collegi religiosi, il «Pesantren» in questione è dove Italo Spinelli ha realizzato il suo film, Da’Wah, presentato come evento speciale alla Festa di Roma. Le sue guide sono quattro ragazzi, giovani studenti adolescenti – nella scuola ci sono 2700 alunni tra i sei e i diciotto anni – di cui segue la giornata che inizia a notte fonda, alle 3 del mattino, scandita da preghiere, lettura del Corano, esercizi fisici, lezioni coi maestri, discussioni nel periodo che precede il ritorno al casa per il ramadan.

 

 
A questo «rituale» si alternano le incursioni nella vita «fuori» di Rafli, Masduqui, Yazid, Shofi, ognuno con una storia e una provenienza diverse accomunati da questa esperienza e dal desiderio di continuare quanto stanno imparando, di poter divenire un «Ustad» ovvero un «grande uomo». C’è chi vorrebbe proseguire gli studi nello Yemen, chi vorrebbe andare in Egitto ma anche in Italia perché adora Valentino Rossi, e in Spagna a vedere giocare il Real Madrid. Chi invece vorrebbe insegnare a studi compiuti l’Islam in Germania per smantellare l’equazione tra musulmani e terrorismo. La scuola è un posto importante, che gli permette di avere amici, di studiare, di confrontarsi con argomenti che altrimenti gli sarebbero preclusi.

 

 
Spinelli rimane a distanza, filma e ascolta senza forzare la «soglia» di un universo che lascia invece emergere nelle sue immagini. E in questo senso «dentro» e «fuori» formano lo stesso spazio mentale e culturale rispetto al quale si raccontano gli interlocutori.

 

 
Ogni conversazione, catturata nei cortili degli edifici scolastici, durante le ore di riflessione o mentre i quattro protagonisti sono a casa, nei campi, insieme ai familiari riguardano la scuola, punto di riferimento centrale per le loro esistenze presenti e future. Non ascoltiamo paure, tentennamenti, dubbi ma tra quello che imparano e quanto esprimono sembra esserci quasi una coincidenza, ed è quella anche la lente con cui si confrontano con il mondo.
Al centro il film pone, appunto, la questione della tolleranza, di un insegnamento che respinge con fermezza qualsiasi violenza. Il maestro insiste spesso nelle sue lezioni sulla gentilezza – «evitate di terrorizzare la gente» – e sulla tolleranza, sull’importanza di non cedere mai a un impulso rabbioso anche di fronte alle delusioni. «Jihad è la guerra contro le tentazioni, contro i desideri, contro noi stessi» dice. Spiega che l’Islam onora la donna – «Senza l’approvazione della madre un figlio non può andare in paradiso» – che le circonda di rispetto.

 

 
La scuola ci insegna a vivere in modo giusto dicono i ragazzi che lì possono parlare solo arabo altrimenti vengono puniti – «Mi tengono d’occhio» scherza uno di loro – anche se la vera difficoltà è proprio seguire questa etica.

 

 
E le guerre, il terrorismo, quanto accade nella realtà di oggi? I maestri aiutano a trovare le risposte nel segno del rispetto. I ragazzi cercano di tracciare delle linee, parlano di internet che è «un coltello affilato», alcuni non lo hanno neppure, la prospettiva in campagna sembra diversa.

 

 
Ma nonostante questo le domande che sollevano durante le lezioni lasciano intuire che non è così, che la preoccupazione del presente è forte e costante. E cercare a questi interrogativi le risposte è un obiettivo importante anche per gli insegnanti ma senza mai allontanarsi dalla propria pratica.