Per loro vivere significa stare sempre in allerta, perché il pericolo potrebbe arrivare in qualunque momento. Ci sono quelli ai quali basta il rumore di un ascensore che si chiude per far tornare alla mente il suono, terribile, della porta della cella libica in cui sono rimasti segregati per mesi. Oppure c’è chi sobbalza solo a sentire suonare una sirena. Ad altri ancora un locale affollato porta automaticamente il ricordo dello stanzone in cui sono stati tenuti prigionieri insieme ad altre decine di uomini e donne, uno ammassato all’altro senza un bagno, senza acqua né cibo. E poi c’è la memoria delle bastonate, delle violenze, degli stupri.

Nel linguaggio asettico della medicina tutto ciò viene definito come disturbo da stress post-traumatico complesso. Chi si prende cura di loro, cercando di rimarginare cicatrici spesso troppo profonde per riuscire perfino a parlarne, preferisce invece parlare di «ferite che non si vedono», eufemismo gentile per definire i traumi conseguenti alle torture subite dalla stragrande maggioranza dei migranti durante il loro viaggio verso l’Europa. «All’inizio non riescono neanche a raccontare la loro storia, perché la sofferenza che provano è troppo forte» spiega Alberto Barbieri, coordinatore generale di Medici per i diritti umani (Medu), Ong che ha aperto il Centro Psychè per la «cura, ricerca, testimonianza contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti». «Il primo passo, forse il più difficile è riuscire a conquistare la loro fiducia, creare un’alleanza terapeutica che li porti lentamente ad aprirsi e confidarsi», prosegue Barbieri.

L’ambulatorio dove si curano le vittime della tortura è situato in due locali con una grande vetrina che si trovano al Pigneto, zona sud di Roma. Medu ha deciso di aprirlo un anno fa, quando dai dati che arrivavano dall’unità di strada che ogni giorno assiste i migranti nelle vie della capitale l’Ong si è accorta che più del 90% portava addosso – sul corpo e nello spirito – i segni delle torture subite prevalentemente in Libia. In questi mesi sono state 52, tra le quali 3 donne, le persone prese in carico dall’ambulatorio, età media 26 anni e appartenenti a venti nazionalità diverse la maggior parte proveniente però da Gambia, Nigeria, Mali ed Eritrea, ma anche afghani, pakisani e perfino due cinesi. Persone indirizzate all’Ong, oltre che dall’unità di strada, anche da Cas e Sprar (i Centri di assistenza straordinaria e il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati), oppure da altre Ong. Ad accoglierli ci sono due medici, due psicologi e sette mediatori culturali, decisivi questi ultimi per dar vita a un rapporto con persone che, per le esperienze vissute, difficilmente si fidano ancora di un estraneo. «I sintomi che presentano sono diversi», prosegue Barbieri. «C’è chi non riesce più a dormire perché ogni volta che chiude gli occhi rivede le violenze subite, oppure chi evita di fare cose che possano fargli rivivere il suo trauma. Per queste persone vedere un uomo in divisa è un problema, perché proprio agenti in uniforme hanno abusato di loro. Un altro sintomo comune è la visione negativa del mondo, un mancanza di fiducia nel futuro accompagnata spesso da sensi di colpa, come se quanto hanno vissuto fosse colpa loro. E poi c’è il trauma delle violenze sessuali, subite dalle donne ma anche dagli uomini, anche se è più difficile che questi ultimi ne parlino».

Il grande numero di migranti arrivati in Europa in questi anni – più di un milione nel 2015, 170 mila solo in Italia quest’anno – ha spinto la comunità scientifica a cercare nuovi e più adeguati interventi terapeutici, ma anche a formare personale specializzato. Nel numero di ottobre la rivista Nature riporta ricerche in corso in corso in Europa il cui scopo è capire i disturbi psichici dei migranti anche in un’ottica di maggiore integrazione. Uno studio condotto dall’università di Costanza, in Germania, ha rilevato che «più della metà» di quanti sono arrivati nel paese negli ultimi anni «mostra segni di disturbi mentali, e un quarto di loro soffre di Ptsd (disturbo post traumatico, ndr), ansia o depressione, che non potranno migliorare senza un aiuto».

Un problema enorme, quindi, reso più importante proprio dai grandi numeri con cui abbiamo a che fare e difficile da risolvere se alla terapia psicologica o farmacologica non si accompagna un lavoro di integrazione. Per questo al centro Psychè di Medu non ci si limita al solo (si fa per dire) aiuto medico, ma si cerca di convincere il migrante a frequentare un corso di italiano, praticare uno sport o un corso professionale che possa insegnargli un mestiere. Qui lo chiamano «spinta di riattivazione», convincere cioè il paziente a uscire dal mondo in cui è rinchiuso per ricominciare a vivere. Un percorso lungo, che può durare mesi se non anni. «In questa campo non c’è un’arma vincente», conclude Barbieri. «E’ una strada in salita in cui si possono solo sommare gli sforzi adattandoli alle esigenze di chi si affida a noi».