A metà degli anni novanta, fra un brano di OK Computer e la voce di Antonio Caronia che ci parlava di cyborg ed esplosione dell’identità nella rete, sugli schermi televisivi di MediaMente, circolava un lungometraggio animato che più di ogni altro avrebbe contribuito ad affascinare e plasmare l’immaginario dello spettatore dell’epoca. Anche se Kokaku kidotai (Ghost in the Shell), usciva nelle sale dell’arcipelago nipponico nel 1995, un po’ sottotono e senza particolari clamori, nel biennio seguente grazie alla circolazione in videocassetta tanto negli Stati Uniti come nella nostra penisola ed in altri paesi del globo, sarebbe diventato un vero e proprio fenomeno mediale e simbolo di quella cultura della rete che in quegli anni emetteva i primi vagiti.

 
Diretto da Mamoru Oshii con la I. G Production, il film ebbe un tale impatto sul pubblico, grazie alla sue riflessioni filosofiche e all’abile miscela di animazioni tradizionali con la computer graphic, da creare un vero e proprio franchise mediale ancora oggi in espansione. Il lungometraggio era una rivisitazione del manga omonimo scritto e disegnato da Masamune Shirow, reclusivo ed originale mangaka nipponico, che al fumetto aggiungeva la poetica ellittica e tarkovskiana di Oshii. Questo franchise in venti anni ha dato vita a tre lungometraggi animati, Innocence (Ghost in the Shell 2) diretto sempre da Oshii nel 2004 sarebbe stato il primo lungometraggio animato invitato in competizione a Cannes, e numerose serie animate.

 

 

 

 

Di un possibile remake/adattamento live-action se ne parla da quasi un decennio ed ora con la qualità raggiunta dalla CG era quasi inevitabile che il progetto diventasse realtà. Del film diretto da Rupert Sanders ed interpretato da Scarlett Johansson e Juliette Binoche se ne è parlato e discusso ampiamente prima della sua uscita a causa del whitewashing, protagonista e personaggi principali sono infatti interpretati da attori bianchi e non asiatici. Qui in Giappone dove il film è nelle sale dallo scorso venerdì il problema non sembra aver toccato più di tanto l’opinione pubblica, i protagonisti in definitiva non hanno caratteristiche fortemente asiatiche nel manga e nei film, anche se forse il problema è più complesso ed andrebbe analizzato in altra sede.

 

 

 

 

Per chi non conoscesse la storia, siamo in una metropoli giapponese del futuro prossimo, la cui forma ed urbanistica fin dal manga è modellata su Hong Kong, dove il limite fra umano ed artificiale è saltato; cyborg ed umanità aumentata sono la regola come è anche normale che chiunque sia continuamente collegato alla rete, direttamente dai propri centri neurali.
Johansson interpreta la protagonista, il maggiore Mira, un nuovo tipo di ibrido in cui la parte umana resta solo il cervello, ed assieme ai suoi compagni della Sezione 9 scopre il piano di un misterioso hacker per uccidere i principali esponenti della Hanka Robotics.

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Visivamente il film continua e porta agli estremi quel processo iniziato da Blade Runner e continuato poi nei manga, nei lungometraggi ed in moltissime altre opere, la città è un caos vivo di scritte e pubblicità al neon, questa volta anche in 3D, stratificata ed ammassata di tecnologie e detriti urbani. Gli spunti visivi che questo paesaggio urbano e ciò che al suo interno vive sono degli ottimi elementi con cui riflettere sul discrimine umano/artificiale, ma purtroppo la narrazione non vi si sofferma troppo e fin dalle primissime battute esagera nelle spiegazioni e nel scoprire tutte le carte del film.

 

 

 

 

A differenza  del manga e dei primi due lungometraggi, a cui chiaramente si ispira, il Ghost in the Shell di Sanders non lascia zone grigie, ma chiarifica fin troppo e prende posizione abbastanza presto salendo sul carro dell’«umano», dove i due film di Oshii al contrario riuscivano a far vivere e dare dignità di esistenza all’elemento non umano e a tutte le zone ibride in cui esso dimora.

 

 

 

 

Il film diviene quindi, come è stato scritto da più parti, una sorta di Robocop ma senza il sarcasmo e la violenza di Verhoeven e si riscatta parzialmente solo in alcuni momenti dove i personaggi prendono consistenza; Takeshi Kitano nel ruolo di Aramaki che fa il Kitano che conosciamo dai suoi film è una bella sorpresa, e la parte centrale del film, dove la storia si discosta da manga e film precedenti, è decisamente migliore.
All’appassionato di animazione o a chi con gli originali e cresciuto questa nuova versione dirà davvero poco, ma se non altro ci si può divertire a riconoscere alcune delle scene topiche e più famose dei due lungometraggi, l’aereo che sorvola i palazzi, la lotta nella pozzanghera d’acqua, la «nascita» del maggiore sono alcune delle scene rifatte praticamente fotogramma per fotogramma.

 

 

 

 

Il Ghost in the Shell di Sanders in definitiva non è un cattivo film, gli spunti interessanti ci sono, ma risulta essere un’operazione quasi totalmente inutile, invece di un remake gonfio di citazioni dagli originali si potevano esplorare altre zone del franchise osando magari anche qualcosina in più dal punto di vista della struttura narrativa.