«È il peggior campo che io abbia mai visto in 14 anni di assistenza umanitaria. Vivere in queste condizioni è una tortura per gli esseri umani». Queste le parole con cui il responsabile relazioni esterne di Unhcr, Babar Baloch, sintetizza le condizioni dei 14 mila di Idomeni.

Babar Baloch - responsabile relazioni esterne UNHCR (foto E. Confortin)
Babar Baloch – responsabile relazioni esterne UNHCR (foto E. Confortin)

Qui, al confine tra Grecia e Macedonia, le cose non possono che peggiorare, malgrado un peggio a quanto si vede nella tendopoli sia difficile da immaginare. Non è solo una questione di alloggi degradati, di condizioni sanitarie insufficienti, o di carenza di cibo e acqua. Per riuscire a sopportare un luogo simile bisogna saper convivere con il dolore, la frustrazione e scendere a compromessi con la propria dignità.

Immaginate un padre e una madre, non importa da quale guerra fuggano, costretti a cucinare per i figli un intruglio di pomodori, patate e uova nel fondo di un barattolo di latta sospeso su un fuoco di combustibile improvvisato, soprattutto plastica. Questo accade di giorno in giorno da troppo tempo. Se ne stanno rendendo conto tutti, a partire dai rifugiati maschi in viaggio da soli, adolescenti o poco più, che vedono nelle famiglie dei loro connazionali un destino cui mai avrebbero pensato.

L’inevitabile conseguenza è la rabbia. Una forma di autodifesa naturale, necessaria per non essere sopraffatti dalla miseria, per continuare a resistere a 200 metri dal filo spinato macedone. Ed è questa rabbia che giovedì notte ha provocato una violenta rissa tra rifugiati siriani e afgani, circa una cinquantina di persone armate di spranghe di ferro e pietre. Malgrado le avvisaglie delle ultime ore (scontri recenti di minore entità erano avvenuti mercoledì sera e giovedì), a far precipitare le cose è stato un tentativo di stupro ai danni di una bambina siriana di 7 anni nel pomeriggio, attribuito a un afgano consegnato alla polizia poco prima del linciaggio.

Dopo lo scontro, alcune tende occupate dai rifugiati afgani vengono bruciate, a pochi passi dal confine macedone (1)
Dopo lo scontro, alcune tende occupate dai rifugiati afgani vengono bruciate (foto E. Confortin)

Malgrado la responsabilità non fosse stata accertata, in poche ore la voce si è diffusa all’interno del campo innescando le violenze in serata, sedate solo con il massiccio intervento della polizia. La frustrazione della notte a Idomeni si è poi consumata nel rogo delle tende di alcuni afgani e pachistani, costretti ad abbandonare l’area. «Le persone sono esaurite, stanche, quindi la tensione cresce – spiega Baloch – a volte persino i bambini perdono il controllo, ad esempio quando sono in fila per il cibo. In questo caos tutto è possibile e i più vulnerabili sono donne e bambini, è indispensabile capirlo e trovare un meccanismo umanitario per ripristinare la dignità, a partire da ripari adeguati per tutti. Così come stanno le cose lasciamo massima libertà a criminali e trafficanti».

Il giorno dopo, i resti del rogo notturno
Il giorno dopo, i resti del rogo notturno (foto E. Confortin)

Passata la notte al campo torna la luce del giorno, e sull’asfalto infangato diretto al confine si riversa la stessa desolazione di sempre. Alle 8 del mattino è il turno di Panagiotis Kouroumplis, ministro dell’Interno greco per il quale le condizioni della tendopoli sono paragonabili al campo di concentramento di Dachau. Mentre le code per il cibo tornano a formarsi, sopra un terrapieno di sabbia e ghiaia poco lontano trova spazio un nuovo tendone. All’esterno della struttura decine di volontari si affrettano ad unire telai metallici a stoffe di tela per montare le brande del dormitorio destinato ai rifugiati.

Non a tutti però. «Qui c’è troppa tensione dovuta agli scontri di ieri, noi andiamo con le tende alla stazione di benzina, qualche chilometro a sud, sulla strada per Salonicco», spiegano alcuni pachistani in marcia lungo le rotaie, ormai lontani. La ghettizzazione del campo è una realtà di fatto, e per capirlo basta consumare una tazza di tè in compagnia di una famiglia di iracheni di Sinjar, impauriti a tal punto da dichiararsi sottovoce Yazidi. «Non siamo musulmani, dobbiamo stare attenti per evitare problemi qui al campo», assicurano mentre descrivono la loro fuga nel Kurdistan iracheno seguita alle incursioni di Daesh. «Vogliamo andare in Germania. Siamo disposti a tutto, ad ogni lavoro, pur di lasciare questo fango».

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Qualche centinaio di metri a sudest dell’accampamento principale, un vecchio allevamento ospita centinaia di rifugiati, soprattutto famiglie. Qui, siriani e afgani condividono serenamente ogni centimetro della piattaforma in cemento un tempo destinata al carico del bestiame sui vagoni ferroviari. I bambini giocano a rincorrersi tra i tornelli di ferro con cui i bovini erano condotti al treno.

«Siamo fortunati, c’è una grande tettoia a proteggerci dall’acqua, prima eravamo accampati nella melma», spiega Tahir, 36enne ex insegnante di arabo a Homs, fuggito con la moglie e due figlie da quasi due mesi. Ha gli occhi verdi e i capelli biondi al pari della bambina più grande con cui gioca seduto su una coperta di lana. Tahir racconta la guerra in Siria con un distacco inverosimile, concesso solo a chi è stato costretto a conviverci. «Auguro a tutti gli insegnanti e agli studenti in Europa di non dover mai conoscere la guerra. Mio padre è stato ucciso davanti ai miei occhi e non ho potuto fare nulla. Allo stesso modo mio zio, l’ho visto bruciare nel fuoco». La sua preoccupazione ora è rivolta alla famiglia, ai soldi quasi finiti e a quel cancello metallico che continua a ostruire il passaggio in Macedonia. Dopo una breve carezza alla figlia confida il suo grande sogno, lo stesso di tutti i padri accampati a Idomeni: «Voglio solo lavorare sodo, tornare a casa la sera, procurare quanto serve per mangiare, mandare le bimbe a scuola, vedere mia moglie nelle faccende di casa. Ecco cosa sogno».

Passano le ore e le dita di ogni rifugiato iniziano a scorrere sugli schermi lucidi dei telefonini. Cercano aggiornamenti da Bruxelles, seriamente convinti che giunga la decisione tanto attesa, che domani magari venga aperta la via per la Macedonia. «Non può esserci alternativa, come possono lasciarci ancora vivere come animali», protesta un giovane palestinese di Jenin, la cui irritazione si placa solo al nome di Vittorio Arrigoni. Un rispetto concesso malgrado tutto, malgrado le coperte sporche distese nel vecchio vagone in cui dorme con altri venti palestinesi.

Intanto giungono le prime informazioni da Bruxelles.

Nessun nuovo immigrato irregolare potrà più solcare l’Egeo verso le isole greche, in quanto sarebbe respinto in Turchia. Una soluzione volta a porre un freno ai viaggi della speranza, alle vittime del mare e al business multi-miliardario dei trafficanti di esseri umani, ma poco influente per gli ospiti della tendopoli. Ora in Grecia si teme l’intensificazione delle partenze verso le isole per garantire il passaggio dei rifugiati che in Turchia non vogliono assolutamente restare, prima che l’accordo venga attuato.