Per capire la complessa gravità di quel che sta avvenendo in Italia occorre – per usare una famosa espressione di Walter Benjamin – passarne la storia recente a contropelo. Ed è proprio quel che fa Christian Raimo in un libro meditato e coraggioso (Contro l’identità italiana, Einaudi, pp. 144, euro 12) che prova finalmente a decostruire radicati tabù e a sfidare interdizioni quasi sacre. A cominciare dall’inno nazionale che risuona ormai ovunque: dalle scuole alle caserme, dalle partite calcistiche alle parate militari. «Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta…». Poi seguono parole per un verso minacciose, quando si ricorda che «schiava di Roma Iddio la creò», per l’altro vittimistiche, quando s’impreca di essere stati «sempre calpesti e derisi».

NELL’EXPLOIT DELL’INNO, prima sussurrato, non senza riluttanza, adesso intonato con enfasi o urlato a squarciagola, Raimo scorge giustamente l’indizio di quel risveglio della nazione tragicamente culminato nell’attuale rivincita del neonazionalismo. Che cos’è cambiato dagli anni ottanta a oggi? Come mai un calciatore che oggi si limitasse ad accennare quelle parole, come avvenne nella leggendaria finale contro la Germania del 1982, sarebbe considerato né più né meno che un traditore?
Quel che è accaduto non è il frutto del caso, ma l’esito di scelte politiche e culturali compiute con intenzionalità e consapevolezza. Non ne sono esenti parecchi intellettuali di sinistra. Nel 1993 Gian Enrico Rusconi pubblicava un pamphlet intitolato Se cessiamo di essere nazione. Affiorava allora, con insistenza, il timore di una balcanizzazione dell’Italia, timore dettato non solo dagli eventi drammatici che squassavano la vicina Jugoslavia, ma anche dall’impetuoso secessionismo della Lega Nord di Bossi che invocava «Padania libera!». Avrebbe retto l’Italia con la sua pericolante «identità nazionale»? Tanto più che a sfidarla sembrava anche una nuova «identità» europea in via di costituzione.

Se Berlusconi prometteva un «nuovo miracolo italiano», la destra storica di Gianfranco Fini si rifaceva il look tentando di dismettere i panni fascisti per acquisire un po’ di sano e trasparente smalto nazionalistico. E la sinistra? Impossibile dimenticare il discorso di Luciano Violante, membro del neonato Partito democratico, quando accettò l’incarico di presidente della Camera. Era il 9 maggio 1996. Siccome la storia dell’Italia, dal Risorgimento alla Resistenza, era una storia di parte, occorreva neutralità.
Comprensione, allora, per i «vinti di ieri», per i «migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò». Quello sforzo avrebbe aiutato a rendere il paese più «prospero e sereno» edificando valori comuni. Compresa la liberazione – s’intende! Che importa che la Costituzione fosse nata da un’innegabile vocazione antifascista?

RAIMO PUNTA L’INDICE contro tutte le forze politiche che hanno preteso di defascistizzare il nazionalismo. Il nome per eccellenza è quello di Carlo Azeglio Ciampi, presidente per sette anni, dal 1999 al 2006. Fu lui a immaginarsi «pastore officiante di una religione civile: il patriottismo repubblicano». Fece suonare sempre e ovunque l’inno di Mameli, ripristinò la parata del 2 giugno, rivendicò la sua presenza al Quirinale e soprattutto recuperò l’idea di «patria» alimentando un’identità forte. Il nazionalismo ciampiano ottenne un plauso bipartisan.
Negli anni successivi un afflato neorisorgimentale percorse l’Italia tra il timore del declino e il «bisogno di patria», antidoto – si diceva – ai localismi, agli indipendentismi, ma anche alle prime scosse della globalizzazione. All’orizzonte si scorgevano già i primi spettri rossobruni: difesa dei confini e della comunità contro le spinte centrifughe sovranazionali.
È a questo punto che – osserva Raimo – il discorso patriottico diventa egemone. L’«identità italiana»! Ecco la panacea di tutti i mali, riconosciuti in particolare nel deficit di una «cultura e mentalità di tipo conservatrice». Questa è la diagnosi di Ernesto Galli della Loggia che, con le sue pubblicazioni, nonché la curatela di una collana per il Mulino dedicata a questo tema, si fa portavoce, per quasi un ventennio, di una narrazione neopatriottica e reazionaria che a sinistra non trova né argine né, tanto meno, una risposta all’altezza dei tempi.

NEL 2011 si celebrano i 150 anni dell’Unità d’Italia; nel 2015 si commemora il centenario della Grande guerra. Già nel 2004 era stato istituito il «Giorno del Ricordo» per le foibe. Il fiume carsico del nazionalismo affiora prepotentemente in superficie, rafforzato da numerosi affluenti: il liberalismo patriottardo, il neofascismo semi-istituzionalizzato, il populismo trionfante. La Lega rimpiazza il terrone con il migrante e dà la stura a una xenofobia quasi di massa.
Nel frattempo l’Italia, per secoli paese di emigrazione, diventa rapidamente paese di immigrazione. Oltre a scoprirsi inospitale, malgrado tutta la sua tradizione, si rivela incapace di sviluppare una politica adeguata. Le leggi che si susseguono sono ispirate da criteri polizieschi. E questo non cambierà – come sappiamo bene – neppure con i governi di centrosinistra. Anzi, l’ideologia grottesca e vile del neonazionalismo si rafforza. Divampa il vittimismo. La religione dell’italianità fa proseliti anche a sinistra.

IL TRICOLORE è sbandierato ovunque. Serve anche a coprire oculatamente la vergognosa storia coloniale dell’Italia, le responsabilità del fascismo, il coinvolgimento diretto nello sterminio degli ebrei. Ma il neonazionalismo richiede anche una revisione sia della storia del Risorgimento – e qui Raimo riprende e rilancia le tesi interpretative di Alberto Mario Banti, che ha denunciato la costruzione del mito – sia della Resistenza. «Oggi affermare il ruolo centrale dei comunisti in tutta la guerra di liberazione e nel processo costituzionale sembrerebbe un azzardo», osserva Raimo.
Non c’è dubbio che grazie a questo caleidoscopio del neonazionalismo si riesce a mettere a fuoco l’Italia quasi irriconoscibile del 2019, il paese dominato da Matteo Salvini, che ha chiuso i porti e dichiarato guerra ai migranti. L’italiano quando si sforza di fare l’italiano – come aveva intuito già Furio Jesi – diventa fascista. E ovviamente– si deve aggiungere – maschilista.

MENTRE CI RICORDA che l’identità è un mito, come insegna d’altronde la filosofia dell’ultimo secolo e come mostrano quelle figure che, a partire ad esempio dai marrani, hanno dovuto vivere in sé il dissidio, Raimo guarda con fiducia alla possibilità di una narrazione alternativa. A questo tema è dedicata l’ultima preziosa parte del libro. È la narrazione che viene dai margini. Tanto per cominciare da coloro cui un’identità è stata negata, contestata, e che spesso hanno subito anche il rifiuto della cittadinanza. Manca del tutto, finora, l’immagine del paese vista dai nuovi arrivati che restano confinati al silenzio. E in genere sono ancora poche e isolate voci come quella di Igiaba Scego che con i suoi lavori ha messo il dito sulla piaga del colonialismo rimosso. Forse ci vorranno ancora anni per una narrazione che ribalti il nazionalismo e racconti, con gli occhi e il cuore degli immigrati, le bellezze nascoste dell’Italia nelle sue differenze.